UN AFFARE DI FAMIGLIA (Manbiki kazoku, 2018), Hirokazu Kore’eda

In un umile appartamento vive in allegria una “famiglia” di persone non unite da legami di parentela: una coppia, formata dall’operaio Osamu e da Nobuyo, una nonna, il piccolo Shota e la giovane Aki. Quando Osamu trova per strada una bambina che sembra abbandonata dai genitori, decide di accoglierla in casa.

Si guarda Un affare di famiglia come talvolta si assiste allo scorrere della propria vita: un avvicendarsi di eventi ora rassicuranti ora traumatici, in un irriducibile flusso naturale. Il film rappresenta l’indefinitezza del presente che è lo stato del vivere: Kore’eda coglie gesti, situazioni, sguardi con un’apparente oggettività, ma è in grado di trattenere, all’interno dell’inquadratura, l’emozione nell’istante stesso in cui essa si manifesta. Il suo è cinema/vita, è il buio e la luce del vivere, condensati in una serie di sequenze brevi, asciutte, capitoli di esistenze mai completamente decifrabili: Kore’eda lascia i suoi personaggi all’interno di un quadrante misterioso dove non esiste una netta separazione tra bene e male: l’unica divisione riconoscibile è quella tra amore e non amore.

La famiglia Shibata, nella sua umile quotidianità, nei piccoli spazi condivisi ed affollati di oggetti e abiti, nel cibo preparato e consumato nell’unità di una cellula coesa, dove ogni individuo è unico ed è parte di un tutto, è espressione di un amore che si manifesta al di là delle leggi – sia umane che di natura. Vi è una profonda, laica religiosità in un legame parentale che non nasce dello stesso sangue: la scia che avvolge i vari membri – ciascuno col proprio dolore, una ferita, una macchia impressa sul passato – è un sentimento salvifico ed istintivo; un riconoscimento di destino comune, un’accoglienza in uno spazio d’amore. Spazio che il regista delimita, con uno studio applicato ad ogni singola inquadratura, interrompendolo attraverso linee verticali: come se il reale fosse scomposto in blocchi, istanti, un presente isolato e per questo impermanente.

Ogni membro ha dell’altro una visione del tutto soggettiva, interna alla propria esperienza: Koreeda ha la capacità di trasferire sullo schermo questa soggettività, lasciando di ciascun personaggio un puzzle impossibile da completare: creature indefinite, complesse, talora ambigue; persiste una luce anche nei comportamenti più opachi o nelle ombre del passato.
La struggente bellezza di Un Affare di Famiglia risiede nella sua capacità di rivelare le sfumature dei rapporti umani e di liberare l’individuo da una univocità cui viene costretto da uno sguardo “sociale”. La famiglia Shibata è un microcosmo di anime libere: in questo, ricorda molto l’eccentrico nucleo di You can’t take it with you (1938), di Frank Capra. Kore’eda trasforma l’esperienza – transitoria, evanescente – della famiglia Shibata in un “segno” tangibile, non privo di trascendenza, della possibilità dell’anima di uscire dal proprio destino di sofferenza e solitudine. Una solitudine cui si torna cambiati, consapevoli del dono dell’amore e della sua straziante provvisorietà.

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Nubi Fluttuanti è un progetto di Marcella Leonardi dedicato al cinema giapponese classico e contemporaneo.
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