THE GOOD FAIRY (Zenma, 1951), Keisuke Kinoshita

Opera del 1951, un anno impegnativo per il prolifico Kinoshita che realizza quattro film, tra cui il surreale e magnifico Carmen Comes Home, primo film a colori del Giappone. The Good Fairy (in originale “Il demone buono”, titolo ben più significativo) è un film “minore” e incerto: Kinoshita ne approfitta per osare soluzioni linguistiche e allusioni rischiose, che rendono terribilmente affascinante anche un’opera incoerente come questa. Masayuki Mori è Nakanuma, direttore di un tabloid interessato alla crisi matrimoniale tra un uomo politico senza scrupoli e sua moglie Itsuko. Deciso a scoprire di più sulla donna (per motivi che scopriremo personali), Nakanuma invia per un’intervista il suo giovane reporter Rentarō.

Come un’onda che si infrange sulla riva, il film vira da frizzante inchiesta sul giornalismo sensazionalistico (sulla scia di Scandal di Kurosawa) a riflessione filosofica sul passato, sull’amore, sul nichilismo che corrode gli esseri umani. Una fitta trama lega tra loro i personaggi, uniti e feriti irreparabilmente. Kinoshita gioca con le linee temporali, inserisce flashback a tradimento, fa uso di ellissi oscure e radicali; effettua una vera e propria ricerca sperimentale sul primo piano, ispirandosi all’intensità del cinema muto e ad un montaggio “delle attrazioni”. Al regista poco importa la coerenza stilistica, e al montaggio ritmato della prima parte subentrano dialoghi lunghissimi e filosofici, avvolti in movimenti di macchina continui, carezzevoli e poetici.

Corpi e volti vengono abbracciati dalla macchina da presa, osservati da molteplici prospettive: ogni figura umana acquisisce un carattere ben preciso, una funzione che ne stilizza il comportamento. Nakanuma (Mori) è vile, crudele e duale: un Bogart reso cinico dalla vita, sguardo gelido e sigaretta tra le dita. Kinoshita lo immortala in tutta la sua bellezza misteriosa e distante, conferendogli un’inattingibile aura hollywoodiana. Rentarō, l’idealista, possiede invece un romanticismo innocente e violento al tempo stesso (“il demone buono”); giovane, scarmigliato e innamorato, ricorda l’irruenza di un giovane Majakovskji. Le figure femminili risultano senz’altro meno interessanti e sfumate, e si dividono in algide (Itsuko) o sensualmente martiri (sua sorella Mikako, ma anche la timida amante Suzue). Nel terzo atto assistiamo alla morte di Mikako e lo schermo si colora di necrofilia: Rentarō reclama la sua “sposa cadavere” e fa celebrare le nozze post mortem.

A tutto ciò si aggiunge un finale di velata omosessualità, quando Nakanuma e Rentarō, tra i quali scorrono sentimenti impetuosi e contraddittori, si separano per sempre: Rentaro si dispera, le lacrime trattenute di fronte alla morte di Mikako ora sgorgano copiose. The good fairy è un dramma nero e cupo, disperso in mille rivoli irrisolti; tuttavia Kinoshita non rinuncia a qualche tocco ironico: come la teiera che sbuffa vistosamente (un’affettuosa presa in giro di Ozu?) nelle scene più melodrammatiche.

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