AFTER LIFE (Wandāfuru raifu, 1998), Hirokazu Kore’eda

“Realizzare After Life mi ha aiutato a vedere il cinema in modo diverso. Questo è un film sulla memoria, ma è anche un film su cosa significhi fare cinema.” – Hirokazu Koreeda

Il titolo originale di After Life, Wandāfuru raifu, significa in realtà wonderful life, (vita meravigliosa, nell’accezione del film di Frank Capra). Come spesso accade, la traduzione occidentale perde la connotazione suggestiva e densa di allusioni per diventare meramente esplicativa. Ma è in quella meraviglia che risiede l’essenza del film di Koreeda, apparentemente così prosaico, ambientato in spazi desolati e scarsamente illuminati; luoghi privi di qualsiasi “alterità”, familiari e umanissimi. È il limbo del passaggio, in cui si esplica la “burocrazia dei morti” che tanto ha attratto i grandi autori del cinema (da Lubitsch a Powell e Pressburger) e dove si decide il destino delle anime. Stanze del transitorio, delle ultime vestigia di umanità che vanno svanendo – di qui i muri scrostati, le finestre arrugginite, le foglie che cadono al canto serale degli uccelli. La fine della vita è una stagione autunnale, in cui la brina e i freddi tramonti sono il preludio all’addio.
Koreeda rifiuta complesse astrazioni per riportarci alla sostanza più semplice e riconoscibile dell’essere. Si accede al limbo (una struttura fatiscente che potrebbe essere una vecchia scuola o ufficio comunale) da una serranda aperta, colma di luce. Le figure umane emergono lentamente, ombre tra le ombre, ciascuna ordinatamente in attesa di un posto. Un gruppo di funzionari assegna loro il compito di scegliere un momento felice dell’esistenza: quel ricordo sarà ricreato in un film e sarà l’unica memoria che porteranno con sé nell’eternità.

In questo film che riluce di entusiasmo giovanile, amore per il cinema e desiderio fantastico, Kore’eda punta la macchina da presa sui volti, sui gesti, su tutta la bellezza di ogni essere umano ripreso nella sua unicità. L’assenza dei movimenti di macchina nelle “interviste” frontali ai defunti si alterna a momenti più freschi e convulsi, ripresi macchina a mano: l’eterno dialoga con l’istante, l’oggettività si confronta con l’emozione individuale e l’istinto poetico. Episodico e sospeso, il passato dei vari personaggi ritorna su un nastro vhs: l’atto del “guardare se stessi”, scorgendo particolari che in vita erano sfuggiti, rivela la nostra cecità da vivi. La struttura di After Life è mutevole e aperta all’improvvisazione, rispecchiando l’inclinazione di un regista attratto dalla complessità del documentario e dal potere evocativo della finzione: “le emozioni umane sono le scintille che volano quando “verità” e “finzione” si scontrano” (1).

Koreeda è innamorato della storia del cinema giapponese e nelle inquadrature riconosciamo suggestioni di Ozu, ma ancor di più Naruse: gli ambienti anonimi, la presenza di fantasmi pallidi tra le rovine, la libertà temporale del racconto sembrano aspirare alla composita e poetica visione di Floating Clouds (1955).
Ma è nell’ultima parte, quella dei ricordi ricreati e filmati, che After Life letteralmente si “stacca da terra” e scavalca i limiti dell’esperienza umana. Con poche immagini, in gran parte lasciate all’infinito fuori campo che è l’immaginazione dello spettatore, Koreeda ci restituisce la natura ambigua e fugace della memoria, sintesi di realtà e desiderio (così come lo è il cinema). Gli ospiti della struttura lentamente svaniscono, dissolti dal ricordo “messo in scena”; e vi è una pace profonda nel ritrovare, racchiuso nell’attimo, il senso della propria identità.

In uno dei tanti ricordi, che secondo la lezione hitchcockiana è nitido, affilato e cromaticamente acceso, scorgiamo il volto di Kyōko Kagawa, tra le più grandi attrici del cinema classico; un’apparizione in cui si realizza il momento più alto e poetico di After Life, la materializzazione di una nostalgia. La “vita meravigliosa” trascorre portando bellezza e dolore; l’amore, come scrisse Yeats, fugge e nasconde il viso fra un nuvolo di stelle. Ma il cinema è il corpo della memoria. È l’eterno che sopravvive alla morte, l’immagine barthesiana di qualcosa che non è più, ma continua a guardarci negli occhi, sottraendosi al tempo.

Note:
(1) After Life Press Kit, 1998

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