DANCING GIRL (Odoriko, 1957), Hiroshi Shimizu

La ballerina di rivista Hanae vive in povertà insieme al suo compagno, il violinista Yamano, ad Asakusa. Un giorno la sorella minore di Hanae, Chiyomi, si trasferisce nel minuscolo appartamento della coppia, stravolgendone gli equilibri con il suo atteggiamento spregiudicato. Dopo aver conquistato un posto come prima ballerina, Chiyomi arriverà a sedurre Yamano.

Hiroshi Shimizu, tra i più grandi registi giapponesi del periodo classico, dallo stile moderno e aperto a molteplici sperimentazioni, lavorò fino al 1959 senza mai tradire la necessità di creare un cinema nuovo, libero e anticonformista. Se in Occidente è celebre soprattutto per titoli come Japanese Girls at the Harbor , 1933 (opera di straordinario impatto emotivo, che unisce narrazione drammatica e stile documentario, facendo ricorso anche a elaborati jump-cuts) o Mr. Thank-You, 1936 (anticipatore del neorealismo e tra i più bei film mai realizzati nel Giappone rurale), fino ai numerosi lavori sui bambini (in particolare lo struggente ed entomologico I bambini dell’alveare, 1946, impietosa fotografia dell’emarginazione infantile nel dopoguerra), Shimizu fu in realtà un autore instancabile, la cui sterminata filmografia necessita di una riscoperta.

Dancing Girl è uno degli ultimi lavori del regista, ma è ancora palpabile il suo desiderio di cogliere, attraverso le immagini, le trasformazioni e le contraddizioni di un Giappone dall’anima divisa, reduce da anni di occupazione americana e alla ricerca di una propria identità. Shimizu mette in scena una parabola morale incentrata su tre personaggi: Hanae, giovane donna sensibile e buona, incarnazione di uno spirito positivo e innocente; Chiyomi, sua sorella minore, priva di etica, superficiale e consumata da un bruciante egoismo; Yamano, compagno debole di Hanae, simbolo di una mascolinità fragile e cedevole nei confronti del piacere effimero. Le dinamiche tra i personaggi fotografano l’immagine composita di un paese incerto e tremulo, trasformato culturalmente dall’America, in cui la crescente economia e l’urbanizzazione si accompagnavano ad un pervasivo declino morale.
Chiyomi è “figlia del proprio tempo” e Shimizu ha nei suoi confronti uno sguardo di profonda comprensione: giovane, povera, dotata di un corpo naturalmente seducente e sedotta dalle luci di Asakusa, la ragazza ci appare come un animale istintivo e affamato. Machiko Kyō la interpreta meravigliosamente, conferendole una esplicita volgarità (espressa dalle movenze, dallo sguardo opaco e privo di “profondità”, fino alla bulimica voracità con cui si abbuffa di cibo) ma anche una tristezza subconscia, quasi recisa dal suo essere.

L’arrivo di Chiyomi rivoluziona la mortifera stasi della coppia Hanae-Yamano, sepolti in un piccolo appartamento ad Asakusa. La vita di Hanae viene sconvolta, ma dalla distruzione si innesca un movimento. Shimizu ancora una volta rivela il suo talento nel creare coordinate spazio-temporali libere e senza peso: la sua macchina da presa si muove con grandissima libertà tra le strade di Asakusa, eleggendo a cifra stilistica i carrelli e panning laterali, per restituire una città in fieri. L’istinto documentario è sempre vivo nel regista, e la grandezza del film risiede nell’equilibrata armonia di realtà e finzione, presa diretta sul mondo e messa in scena quasi teatrale del piccolo interno in cui i tre protagonisti vivono, soffrono, si seducono.

Di grande bellezza, ad esempio, sono le scene ambientate nel balcone dell’appartamento, dove i personaggi si confessano in drammatici confronti. Il regista ricostruisce tutto in studio e dispone le sue figure umane tra mura artificiali, cieli dipinti con nuvole bianche, luci antinaturalistiche. È qui, lontano dall’anonimato delle strade e della folla, che Shimizu lascia emergere l’umanità più profonda e apre una dimensione separata per gli smarrimenti dell’anima. In un certo senso offre uno spazio protettivo ai suoi personaggi – ripresi in intimi primi piani – e lascia allo spettatore un posto d’osservazione privilegiato per potervi partecipare. L’antinomia realismo-teatralità è l’elemento più affascinante ed originale di Odoriko, ed è testimonianza dell’esuberanza creativa del suo autore, elegante quanto antidogmatico, proteso a un’autonomia espressiva che lo portò a creare, nel 1948, una casa di produzione indipendente (la Beehive Eiga)

Ma forse le scene più dirompenti di Odoriko sono quelle della Revue: gli spettacoli sono una scadente imitazione delle “riviste” all’americana, con ballerine in costumi succinti e scenografie urbane. Shimizu filma le gambe delle ragazze, memore di tanti musical hollywoodiani, mettendone in risalto la carnale sensualità. Le riprese tagliano i volti fuori dall’inquadratura, in modo da spersonalizzare le ballerine, oggetti di consumo in un entertainment di stelle fatue. Si tratta di sequenze belle e malate, in cui Shimizu anticipa il feticismo e la sessualità prorompenti del decennio successivo. Il suo atteggiamento non è dissimile da quello di Naruse in Angry Street (1950), che riprendendo le moderne “Dance Halls” all’americana trasmetteva un senso di ambiguità creato da atmosfere glamour su cui però incombeva il peso dell’alienazione e della perdita di valori. Come Naruse, Shimizu è consapevole di una corrosione etica, eppure il piacere della bellezza, fuggevole e illusoria, illumina le immagini.

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Nubi Fluttuanti è un progetto di Marcella Leonardi dedicato al cinema giapponese classico e contemporaneo.
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