KYRIE (Kyrie no Uta, 2023) Shunji Iwai

Kyrie, giovane senzatetto colpita da afasia verbale, riesce a trovare un riscatto artistico come cantante grazie alla sua amicizia con la coetanea Maori. Il suo trauma è conseguenza diretta del grande terremoto del 2011, durante il quale la ragazza perse la madre e la sorella; il canto diventa il suo rifugio, l’unico modo per esorcizzare i demoni interiori. Il film ripercorre 13 anni di incontri e addii intrecciando le storie di quattro persone legate dalla musica di Kyrie (interpretata dalla cantante Aina The End).

Come Love Letter, anche Kyrie si apre su un paesaggio innevato, ripreso in campo lunghissimo, mentre due corpi umani appaiono come piccoli punti in movimento, presenze vive eppure trascurabili nell’infinità dell’orizzonte. Il quadro naturale, immobile e distante, entra dunque in contrasto con il piccolo agitarsi umano; la distesa di neve pare inghiottire le due figure nelle sue remote coordinate spazio-temporali. È così che Shunji Iwai segna la differenza tra il “tempo” umano e quello delle cose; il primo più breve, mosso, ellittico, dominato da soggettività e memoria; il secondo un distante testimone.

Questo tempo soggettivo, convulso e irrazionale, sorregge la struttura narrativa del film; Iwaji continua nel solco della sua ricerca sperimentale, fedele alla propria natura di artista inquieto, attento a una forma-cinema aderente al flusso di coscienza dei suo personaggi. L’uso della colonna sonora e della macchina a mano costituiscono continue sollecitazioni per lo spettatore, che diviene parte del processo narrativo, coinvolto a livello psicologico e sensoriale. Nel cinema di Iwaji non solo ci sembra di percepire il pensiero del protagonisti, il brusio dei loro monologhi interiori, ma partecipiamo delle sensazioni legate alla sfera puramente sensoriale (una canzone, una sensazione di freddo, un ricordo che affiora proustianamente attraverso un sapore).

Il film è strettamente legato all’esperienza del terremoto del Tōhoku del 2011, rappresentato con una scena prolungata e di grande angoscia, girata all’interno di una stanza: il trauma del singolo prima dell’esperienza collettiva, la paura solitaria, il crollo di pareti e oggetti (e del sé). Voci al telefono si cercano, mentre la città si svuota in cerca di rifugi. L’anelito di Iwaji sembra inseguire una costante, irriducibile alterità: i suoi giovani si confrontano con l’eternità e il tempo, desiderano un contatto, sperimentano l’assenza in un susseguirsi di incontri mancati. Kyrie si sorregge su un linguaggio spezzato e un montaggio non lineare, rendendo difficile talvolta la comprensione degli eventi; ma coerenza e razionalizzazione non interessano il regista, che invece dà vita a episodi isolati di magnifica bellezza, catturati “in presa diretta” e esaltati da jump cuts in sintonia con i battiti del cuore. Lo stesso caos della sceneggiatura, che copre ben 13 anni e si dirama tra sottotrame pulsanti di vita propria, fa tabula rasa di flussi logici e sintagmi di legamento, per addentrarsi in un territorio inconscio e comunicare intimamente con lo spettatore.

Esattamente come la musica, che tocca le corde dei nostri sentimenti e del nostro immaginario liberando una sorta di esperienza ulteriore, così il cinema di Iwaji fa ricorso a strumenti ritmici e poetici – ma anche alla “smaterializzazione” offerta dal digitale – per farsi sogno e ricordo. Il suo approccio lirico e onirico alla materia narrata permette alle immagini di “parlare” più intensamente dei dialoghi e diventare parte della nostra esperienza. Ed è proprio il pubblico giovane, il più sensibile al lavoro del regista, a rispondere alla struggente libertà delle sue opere. È possibile che il cinema di Iwaji sia tra le cose più vicine all’anima adolescente, alla sua sofferenza e scoperta della realtà del mondo. Mettendo in scena il lutto, la perdita della parola come reazione al trauma, ma anche la sopravvivenza nella musica e l’iridescenza di un futuro, Kyrie è lo specchio della sensibilità giovanile che si affaccia sulle possibilità del vivere.

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Nubi Fluttuanti è un progetto di Marcella Leonardi dedicato al cinema giapponese classico e contemporaneo.
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