TARDO AUTUNNO (Akibiyori, 1960), Yasujirō Ozu

In una sequenza ambientata in uno dei bar tanto amati da Ozu, Setsuko Hara beve con vistoso piacere. Giustamente, “non si può lasciare la birra”, quindi con la consueta grazia e gentilezza invita gli spettatori ad abbracciare il dolce sapore dell’oblio. In Tardo Autunno è una donna di poco più di quarant’anni, vedova e insegnante (ovvero indipendente e lavoratrice), che preferisce la libertà solitaria a un matrimonio combinato. Legata alla tradizione (indossa il kimono), assapora il gusto delle cose che verranno con spirito rinnovato. La malinconia del passato c’è, in qualche lacrima furtiva: ma Yukiko non è una “vinta” dalla vita, bensì una creatura fiera e carismatica.

Tardo autunno ripropone, a più di dieci anni di distanza, il medesimo tema di Tarda Primavera: il rapporto tra un genitore e la figlia in procinto di sposarsi. Una rivisitazione resa speciale dalla scelta di utilizzare Setsuko Hara nel ruolo che fu di Chishū Ryū, e dal senso di sospensione temporale che avvolge il film, volto a creare un microcosmo ideale all’interno delle nuove tensioni presenti nella società e di riflesso nel cinema giapponese dell’epoca. In un quadro di rinnovate esigenze espressive e di nouvelle vague giovanile, Ozu tiene fede alla propria poetica trascendendo le contingenze: il suo cinema che non si limita a ripetere il passato, ma a levigarlo per giungere all’archetipo – di sentimenti umani, dinamiche, relazioni. In questo senso, è sbagliato sottoporre il suo cinema ad un rapporto immediato con la turbolenza del proprio presente: Ozu non cerca una presa diretta, ma estrae fiori dalla brutalità e dalla volgarità di un tempo distante dalla propria sensibilità.

Il film esprime con impalpabile finezza la condizione emotiva delle due protagoniste, madre e figlia (una luminosa Yoko Tsukasa), di cui fa emergere, senza eccessivo dramma, la tristezza composta ma non per questo meno profonda. Proprio come Tarda Primavera, l’opera è la dimostrazione di quanto più volte affermato da Ozu a proposito del talento di Setsuko Hara: “La più grande attrice del Giappone”, un’interprete magnifica nel far trasparire la sensibilità del proprio personaggio attraverso gesti minimi, sguardi tanto intensi quanto fuggevoli, dettagli sottili che vanno a comporre un personaggio colmo di inesprimibile profondità. Nei suoi educati sorrisi, nella dignitosa accettazione delle regole sociali che le impongono di gestire la pressione dei tre amici – le cui eccessive, invadenti premure vengono accolte con squisita gentilezza – la sua Yukiko mantiene, ferma, la propria indipendenza. Yukiko è una figura-ponte tra le generazioni: lavoratrice, decisa a non risposarsi, pronta ad accettare il cambiamento ma anche a godere di ciò che la vita ha da offrire. Sebbene matura, si emancipa dalla spinta di una società che la vorrebbe legata ad un uomo (“sistemata”) prendendo in mano il proprio destino.

Questo autunno esistenziale viene rappresentato da Ozu attraverso una palette di beige, marroni, grigi spiritualizzati da un alleggerimento della saturazione coloristica. Lo studio della profondità è presente, (anche se meno radicale rispetto a Fiori d’equinozio): Ozu continua a esplorare lo spazio e a stratificare l’immagine attraverso la profondità di campo, ma alterna la precisione prospettica degli interni a scene più libere ripresa in esterni. Presenti anche le tipiche immagini di transizione, che riprendono oggetti, interni o elementi del paesaggio, e le inquadrature di palazzi all’interno dei quali si sposta la narrazione.

Con gusto ludico memore degli esordi, Ozu dedica molte sequenze anche a piccole gag sincroniche tra i personaggi: come quelle tra le due ragazze (Mariko Okada e Yoko Tsukasa), che, mentre discutono della labilità dell’amicizia, smentiscono i loro ragionamenti con il linguaggio del corpo, che si muove all’unisono; oppure quelle riservate ai tre amici di lunga data, pronti a imitarsi specularmente mentre giocano con la pipa, o persino a rubarsi frasi e ricordi.
Chishū Ryū, come già accade in Fiori d’equinozio o Erbe Fluttuanti, si ritaglia un ruolo secondario ma significativo: ogni sua apparizione è estremamente suggestiva. Ozu gli dedica nitidi piani medi che lo vedono “parlare in macchina” (in realtà ai suoi interlocutori) chiamando in causa lo spettatore.

Come nota Dario Tomasi, Tardo autunno “è uno dei film in cui Ozu più riprende le sue conversazioni con un’alternanza di campi e controcampi filmati non di sbieco, bensì frontalmente.” Secondo il procedimento caro al regista, veniamo coinvolti “all’interno del dialogo” attraverso uno sguardo limpido e diretto. I dialoghi sono disorientanti in quanto contraddicono “la linea dello sguardo” tra gli interlocutori; gli occhi penetrano i nostri in modo diretto e molto intimo. La franchezza dei personaggi del film nel guardarci provoca quasi imbarazzo; a volte è bello immaginare Ozu divertito dalle nostre timidezze.

Non si può non menzionare, per chiudere, la bellezza della colonna sonora di Takanobu Saitō. La musica costituisce un vero e proprio “Tema di Yukiko” poiché ne racchiude l’essenza: luminosa e malinconica, gentile e misteriosa, sorridente ma con una fugace amarezza che affiora in trasparenza. Una figura di acutissima sensibilità.

2 risposte a “TARDO AUTUNNO (Akibiyori, 1960), Yasujirō Ozu”

  1. Avatar Speciale Yasujirō Ozu: il maestro del cinema giapponese – Nubi Fluttuanti

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  2. Avatar WHAT DID THE LADY FORGET? (Shukujo wa nani wo wasureta ka, 1937), Yasujirō Ozu – Nubi Fluttuanti

    […] Kuwano diventerà a sua volta attrice (bravissima) per Ozu in Fiori d’Equinozio (1958) e Tardo Autunno […]

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