Il suo film meno conosciuto, il più nero, d’una tristezza pudica eppure dolorosissima. Crepuscolo di Tokyo (1957) si situa in un territorio incerto – quello del passaggio alla modernità – tra difficoltà e prove esistenziali. Bar notturni, ristoranti, strade affollate, prostituzione: Tokyo è rappresentata come città viva in cui flusso esperienziale e corruzione convivono in stretto contatto. Morte e abbandono si posano sulle anime più fragili: nel film appare persino un ambulatorio per gli aborti e ancora una volta Ozu volge il suo sguardo alle ferite femminili, vero “corpo” del cambiamento.
Nel film risuona ossessivamente il ticchettio ritmico dell’orologio: Ozu rende presente lo scorrere del tempo e l’inafferrabilità di un passato i cui traumi non possono essere leniti. Una giovane, Akiko, stesa sul letto, tormentata dal dolore fisico e psicologico di una vita di abbandoni, sussurra: “Voglio ricominciare! Voglio vivere la mia vita di nuovo, dall’inizio!” Il tempo scorre, si allungano le ombre del crepuscolo.
Il bianco e nero funebre, smaterializzato e spirituale di Crepuscolo di Tokyo fotografa la condizione dello spirito di un’epoca, governata dall’erranza muta dei suoi protagonisti. Troppo nero per il pubblico, il film non riscuote successo. L’anno successivo Ozu tornerà ai temi classici familiari (Fiori d’equinozio) con una sensibilità dolceamara e una levità arricchita dall’uso del colore: per Ozu, sarà l’inizio di una nuova fase.
























Lascia un commento