I colori dell’anima – The Colors Within (Kimi no Iro, 2024), Naoko Yamada

La liceale Totsuko ha un dono speciale: vede i “colori” delle emozioni altrui. Questa dote le rende molto attenta allo stato d’animo di chi la circonda e la induce a mentire per proteggere chi ama. Totsuko è molto legata alla sua compagna Kimi, riservata e misteriosa, dai colori affascinanti. Un giorno le due ragazze incontrano Rumi, un ragazzo che sogna di creare una band: i tre si uniscono, legati dalla musica e dai colori delle proprie anime.

Lo shoegaze, genere musicale sviluppatosi alla fine degli anni ’80, indicava una nuova tendenza artistica contraddistinta da atmosfere quotidiane eppure rarefatte: un immaginario sognante e introspettivo, paesaggi sonori che interpretavano un’interiorità timida, eterea e spiritualizzata.
The colors within di Naoko Yamada sembra trasporre nell’animazione la natura celestiale, di sguardo trasognato sul mondo, tipica dello shoegaze: il film è etereo, evanescente, dissonante ma con delicatezza: immagine di una giovinezza incerta e inerte, dalla pelle trasparente e dai desideri tremuli come riflessi di luce.

Dopo l’enorme successo del precedente La forma della voce (2016) su Yamada gravavano le aspettative di una generazione timida e ombrosa, in attesa di un nuovo anime dell’autrice, attenta portavoce della sensibilità giovanile.The colors within sembra aver soddisfatto le attese solo parzialmente, con un racconto fresco ma molto esile, quasi privo di sviluppi narrativi: una “registrazione di sensazioni” dal fascino rarefatto ma pacata nella portata emozionale.

Si avverte, da parte di Yamada, l’esigenza di adattare il proprio straordinario talento a un pubblico internazionale e di rispondere alle attese con un grandioso spettacolo di tutto ciò che l’animazione contemporanea può offrire. Animato in parte a mano, con un tratto dolce e molto personale, The colors within omaggia le opere dello Studio Ghibli, in particolare lo squisito disegno artigianale di Isao Takahata; ma allo stesso tempo contiene sequenze astratte e avanguardistiche, vicine alla Pixar più sperimentale o allo stile libero e psichedelico di Masaaki Yuasa (fondatore dello studio Science SARU, che produce il film).

Muovendosi tra classicismo e modernità, Yamada omaggia i classici del cinema ambientati nelle scuole femminili come Nobuko (1940) di Hiroshi Shimizu o Aoi Sanmyaku (1949) di Tadashi Imai: ma la scelta di un college cattolico sottrae alla vicenda la sua “quintessenziale giapponesità”, forse proprio per adattarsi a una platea diversificata. Le particolari doti sinestetiche della protagonista vengono esplorate solo marginalmente, mentre l’attenzione della regista si sofferma su esistenze quotidiane e ordinarie, prive di pathos e accolte in un alveo di generale benevolenza e comprensione della diversità. In un eccesso di gentilezza, per non turbare troppo i propri personaggi, l’autrice evita di mettere in scena uno scontro io-mondo rimuovendo le possibilità di un arco evolutivo necessario a un racconto di formazione; i tre emotivi, fragili protagonisti attraversano difficoltà cullati da un contesto protettivo, limitandosi a trasferire sul mondo la propria sensibilità in forme artistiche pop.

Le asperità sono levigate, i contrasti generazionali annullati, i dissidi con i coetanei risolti: Yamada realizza un film-manifesto sul bisogno giovanile di gentilezza, e in ciò risiede il pregio e il limite della sua opera. Nelle continue transizioni tra sogno e realtà, nei colori sgargianti, nello studio meraviglioso di luci e riflessi impalpabili, The Colors Within protegge e seda le emozioni in uno stato di sospensione, dove alla meraviglia naturale – fioriture, splendore del mare, tonalità azzurre e dorate di un cielo in trasformazione – non corrisponde altrettanta metamorfosi emotiva: è una favola “di una sola stagione”.

Una replica a “I colori dell’anima – The Colors Within (Kimi no Iro, 2024), Naoko Yamada”

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