DESERT OF NAMIBIA (Namibia no sabaku, 2024), di Yōko Yamanaka

La ventunenne Kana frequenta due ragazzi, noncurante delle norme sociali. Il suo comportamento imprevedibile, il disinteresse nei confronti del mondo e il rapporto distruttivo con Hayashi sono segni del suo disagio sociale all’interno di una società patriarcale.
Con Desert of Namibia Yōko Yamanaka è diventata la più giovane regista donna ad aver vinto il Premio FIPRESCI (Festival di Cannes 2024).

Film imperfetto, inteso come non chiuso, opera aperta e in trasformazione, Desert of Namibia punta lo sguardo su una giovane donna irrisolta e inquieta sullo sfondo di una società rigida e patriarcale. Yōko Yamanaka, 28 anni (già autrice del bellissimo Amiko, 2017) e la straordinaria Yuumi Kawai, tra le attrici più talentuose della sua generazione, si uniscono per dar vita a un film libero, errante, privo di catarsi ma estremamente vivo nel rappresentare il vuoto esistenziale della ventunenne Kana; un nulla desertico – a cui fa riferimento il titolo – scevro di ideali, obbiettivi, movimenti sentimentali.

Kana è intrappolata in una gabbia di sensazioni indefinite e affastellate: un costante deficit dell’attenzione in cui il desiderio è mutevole e il senso di una identità è labile e frammentario. La ragazza vive gli eventi della sua vita con distacco, incapace di gestirli emotivamente, fino all’incontro con Hayashi, un amore travolgente che defluisce rapidamente in un rigagnolo di ripetitività. I due amanti, inizialmente accesi da piccole esplosioni amorose notturne e anarchiche (filmate da Yamanaka macchina a mano per coglierne l’istantaneità radiosa e onirica), approdano a un nucleo di frustrazione che li rende estranei l’uno all’altra. L’occhio della macchina da presa (“casuale” e distante) ci mostra Kana e Hayashi azzuffarsi senza reale violenza, quasi danzando in brevi coreografie che mettono a confronto l’alienazione dei due corpi. Yamanaka registra, con acutezza e sensibilità, il ballet mecanique di due individui reificati che non riescono a comunicare nemmeno mescolandosi tra loro, avvinghiati nella lotta.

Col suo vagabondare attraverso spazi esterni e interni, bar e locali notturni, appartamenti claustrofobici e privi di profondità, Desert of Namibia è la pura espressione dello spirito della sua protagonista, vittima della propria irresolutezza e incapace di decifrarsi. Yamanaka osa soluzioni di grande bellezza, come dissolvenze incrociate e prolungate che non sono il segno linguistico di una transizione temporale ma sembrano indicare la “trasparenza” dell’essere, la sua natura effimera a contatto con le cose. La “presenza insostanziale” di Kana e Hayashi muove dalla necessità di proteggersi dall’ignoto tempestoso della propria interiorità. La regista suggerisce come la società contemporanea imponga una finzione di superfici, riduca la realtà a un simulacro che cela gli esseri umani a se stessi (come notava, in modi diversi, Alice Rohrwacher in Allegoria cittadina, 2024). Seguiamo Kana nel suo percorso senza fine, ne conosciamo i dubbi, gli errori, le soste prive di significato.

The Desert of Namibia è un film destrutturato, cedevole, avviluppato nelle crisi di Kana, che pure ci offre magnifici sorrisi momentanei, corse a perdifiato lungo strade e ponti, movimenti privi di un reale fine. Yuumi Kawai (premiata come migliore attrice alla 67a edizione dei Blue Ribbon Awards e, di recente, come miglior interprete alla 79a edizione dei Mainichi Film Awards) è meravigliosa nell’offrirci un personaggio tanto inconoscibile, sgradevole ma colmo di luce. Sigaretta tra le labbra e sguardo ferito, Kana è la scheggia di una nuova Nouvelle Vague, una figura femminile osservata godardianamente attraverso primi piani del corpo e delle mani, o piani sequenza che ne disegnano il cammino, tra ellissi e momentanee afasie.

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