FLOWING (Nagareru, 1956), Mikio Naruse

Le vicende di una casa di geishe in una società in continua evoluzione, viste attraverso gli occhi della nuova cameriera della casa.

Delicata e malinconica opera di Naruse, Flowing è tra gli esempi più limpidi e luminosi del suo cinema apparentemente quieto, ma percorso, come notava Kurosawa, da una calda e impetuosa corrente sotterranea. Un film dallo stile elegante e sinuoso, in cui le istanze della modernità incontrano suggestioni classiche, in particolar modo l’amore del regista per i riti le arti tradizionali. Particolarmente talentuoso nel gestire un racconto corale (come ad esempio in Summer Clouds o Daughters, Wives and a mother), Naruse posa l’occhio della macchina da presa da un personaggio all’altro, con un lavoro di editing invisibile eppure meticoloso; il film, particolarmente segmentato, concede a ogni figura femminile lo stesso spazio dell’inquadratura – mediante intensi mezzi primi piani – e di ciascuna lascia intuire pensieri, riflessioni e sentimenti. La sceneggiatura concede loro brevi ma significativi dialoghi, in cui è possibile cogliere un sentimento di malinconia, rimpianto, l’amarezza per lo stato delle cose; ma le parole scorrono prive di peso, veicolando un’accettazione per il proprio destino ma anche una pulsione irriducibile, spontanea nei confronti della vita.

Se è vero che ogni personaggio è consapevole della deriva – metaforizzata dalle barche dolcemente trascinate dalle acque del fiume – non vi è, in questo abbandono, un’accezione solo dolorosa, ma anche un istinto ad assecondare le correnti. Scriveva William Butler Yeats: Tutto ciò che è bello scorre come le acque; e similmente le donne di Naruse vanno avanti pur con la consapevolezza della fine incombente. Acuto indagatore dell’anima femminile, il regista ne coglie la “resistenza”, come di un fiore curvato dalla tempesta.

Flowing è pervaso da un distacco – l’osservazione attenta e priva di giudizio di Naruse – che però non riduce mai le immagini a mero documento: il suo naturale istinto poetico e musicale riveste la più laconica oggettività. La vita dei magnifici personaggi si compone giorno dopo giorno, in una circoscritta dimensione spazio/temporale (la casa, la strada, i riti quotidiani) che Naruse orchestra in “canoni” musicali dall’effetto incantatorio. L’afflato di Naruse per la stilizzazione – narrativa e compositiva – concorre alla creazione di stanze poetiche cui vengono apportate via via variazioni, talora minime. Eppure è proprio in queste variazioni che il film cresce e muta, quasi per gemmazione, inclinando in una direzione o in un’altra le fortune delle protagoniste.

Le varie figure femminili vengono tratteggiate in scene scarne e minime righe di dialogo: i famosi “lampi” di Naruse, la sua capacità di concentrare un mondo interiore in un istante. Così come i fenomeni naturali, gli esseri umani sono fatti di piogge improvvise o fuggevoli raggi di sole, che il regista coglie sul volto delle attrici. Nel ruolo della geisha-madre Otsuta, Isuzu Yamada scrive sul proprio corpo la tristezza per un’epoca al tramonto, ma anche l’orgoglio, composto e luminoso, per la propria arte, una ricchezza da tramandare alle giovani maiko. Il ruolo di sua figlia Katsuyo è invece affidato alla vibrante Hideko Takamine, qui particolarmente ombrosa: la sua presenza è quella di una nuvola, carica di apprensione per i tempi che verranno. Intollerante nei confronti del mestiere di geisha, cui contrappone una personalità indomita e moderna, la ragazza si rassegna a diventare cucitrice intuendo però il grigiore della sottomissione al lavoro salariato.

Someka, la geisha più anziana, è resa finemente da Haruko Sugimura, attrice che lavora sui dettagli, sui particolari fuggevoli, riuscendo a trasmettere la triste sensazione di una sensualità che svanisce. A Someka non resta che l’attaccamento ai piccoli piaceri elementari (il cibo, il sakè) e al pettegolezzo per dare un senso alla propria vita: è il personaggio più tragico del film.
Mariko Okada ci regala il ritratto di una giovane priva di riferimenti, una figura affine a Ineko Arima di Tokyo Twilight; mentre la veterana Sumiko Kurishima veste i panni della madam di successo, benestante e dal piglio imprenditoriale. Considerata la prima diva del Giappone e nota in occidente per i suoi ruoli in Every-Night Dreams (1933) e What did the lady forget? (1937), Kurishima incarna una creatura bifronte, sensibile e pragmatica, dall’essenza squisitamente giapponese.

Il personaggio che più incanta e riveste di luce il grigio/argento tipico di Naruse è senz’altro la cameriera Rika, ribattezzata Oharu (un omaggio a Mizoguchi?). L’interpretazione di Kinuyo Tanaka è, ancora una volta, di una bellezza struggente; la sua Oharu, umile e gentile, è soffusa da una nobiltà misteriosa anche nell’abnegazione. I primi piani che Naruse dedica a Tanaka sono la quintessenza del suo cinema, momenti epifanici in cui scorre davanti ai nostri occhi il mistero dei sentimenti umani: le emozioni conflittuali di Oharu, estremamente reattiva nei confronti del mondo intorno a sé, vengono modulate e contenute, come un’onda che si placa nel fluire delle correnti. La sua presenza è l’emblema dell’impermanenza, di una bellezza provvisoria che scorre lasciando spazi vuoti e smarrimenti. Come tutti i film di Naruse, Flowing sembra suggerire un’identificazione dell’animo femminile con il mistero tumultuoso delle cose naturali; una suprema comprensione – al contempo serena e dolorosa – del divenire.

Una replica a “FLOWING (Nagareru, 1956), Mikio Naruse”

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