Basato sul romanzo omonimo di Kanji Kunieda, il film è un racconto romanzato della vita del famoso incisore Kitagawa Utamaro.
Film stupefacente, moderno, sia per struttura narrativa che per la pluralità del punto di vista. Colpisce in particolar modo la bellezza della scena della pesca, in cui corpi giovani e innocenti, liberi dalle costrizioni del kimono e della complessa architettura dell’acconciatura, si tuffano in mare come creature mitologiche, divinità dai lunghi capelli. Mizoguchi apre la scena con due carrelli laterali in cui le giovani si spogliano una ad una, guardando in macchina: c’è qualcosa di sacro nell’esposizione di tanta naturalezza e nudità. Poi, la corsa in acqua, i corpi liberi e sinuosi in mare, i primissimi piani rapidi su sguardi penetranti, selvaggi. Le donne sono il mistero del film, esplorato e temuto. Tanta selvatichezza pulsionale, che agita le protagoniste, era tenuta sotto stretto controllo dall’oppressiva società del tempo: la donna veniva oggettivizzata e idolatrata, ma l’idolatria non era che una forma del potere maschile.




























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