WORLD OF LOVE: TOMI THE WILDCAT (Yamaneko Tomi no hanashi, 1943), Nobuo Aoyagi

Orfana di entrambi i genitori, la sedicenne Tomi si mette spesso nei guai con la polizia. Per la sua natura ribelle e violenta viene soprannominata “gatta selvatica”. La ragazza viene mandata in un istituto femminile di campagna, dove un’insegnante la prende particolarmente a cuore. Dopo alcune difficoltà, culminate in una fuga nella foresta, Tomi scoprirà la forza dell’amore grazie a due bambini e sboccerà all’interno della comunità.

Storia di una “gatta selvatica” – l’adolescente ribelle Tomi – World of love è un magnifico esempio di opera popolare che sfugge al suo destino di prodotto propagandistico per farsi cinema libero e “in formazione” come la sua stessa protagonista.
Priva d’identità e incapace di aderire alle rigide regole della collettività, Tomi aspira a una vita più autentica, tramite la scoperta selvaggia delle proprie emozioni. Analogamente, il film di Nobuo Aoyagi e Kon Ichikawa (qui regista di seconda unità) si affranca dalle stanche convenzioni del melodramma e dai dettami propagandistici dell’epoca per immortalare, con stile audace, la fioritura della diva diciottenne Takamine. Alla sceneggiatura, insolita e ricca di colpi di scena, contribuisce un giovanissimo Akira Kurosawa con lo pseudonimo di Shin Kurokawa.

Film apparentemente leggero e innocuo, World of love cerca la crepa, l’anello che non tiene. La regia di Nobuo Aoyagi crea immagini “fuori dal tempo”, libere e naturali, in sintonia con i palpiti della vita e slegate da mera aderenza ai codici. Al loro centro brilla Hideko Takamine, dall’ espressività forte e dalla fisicità concreta e vivida, in contrasto con le idealizzazioni femminili di grazia e remissività culturalmente prevalenti.
Takamine è una presenza moderna e nuova, proiettata verso il futuro, messa in risalto dalle meravigliose sequenze in esterni che la vedono in movimento nel paesaggio naturale (Aoyagi possiede un sensibile tocco documentaristico). La macchina da presa la segue con carrelli mobili e frementi, in cui Tomi appare viva e luminosa come un fiore nel vento. Ma altrettanto inediti e vibranti sono i primi piani di una Tomi ostinatamente muta, turbata, con le emozioni in rivolta scritte sul viso.

Aoyagi, Ichikawa e Kurosawa riescono a rovesciare a loro favore i limiti di una storia di “redenzione” sociale trasformandola nel racconto pre-nouvelle vague di una giovinezza inquieta e trasparente: Tomi come Antonie Doinel, come Mouchette, o persino come Nana di Vivre sa vie. In un lungo primo piano al buio, la ragazza in lacrime cerca la luce e i suoi occhi recano i segni di una “santità” innocente.

Non dissimile, per affinità di trama, da Nobuko di Shimizu, World of love non è altrettanto spensierato. Vi è una traccia di tristezza che si riflette sul volto di Tomi, abbandonata e selvatica, spesso inquadrata come una sagoma scura in un mondo di ombre spirituali. La fotografia predilige il chiaroscuro e intinge le disavventure del vivere nella tenebra, prima dell’ “alba” assolutrice dell’ultima parte.

Memorabile, inoltre, una breve digressione horror che precede il riscatto di Tomi. La ragazza, dopo una fuga, si perde nella foresta, e la regia ricorre con vivo piacere a effetti orrorifici tanto semplici quanto efficaci ed emozionanti: deformazioni prospettiche, dissolvenze, trucchi sonori e fotografici, il tutto per trasformare la natura in un incubo animista e minaccioso. Takamine fa scintille in un vero e proprio one-woman show, con una performance attoriale in cui la paura, l’istinto, il terrore si susseguono sul viso come gradazioni di luce. Scene come questa fanno di World of love un film unico, l’inaspettata convergenza di visioni e talenti fuori dal comune e in anticipo sul proprio tempo.

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