A STORY FROM CHIKAMATSU (Chikamatsu Monogatari), 1954, Kenji Mizoguchi

Kyoto, XVII secolo. Osan è sposata con Ishun, un ricco e avaro pergamenista. Quando Osan viene falsamente accusata di avere una relazione il devoto apprendista Mohei, i due fuggono dalla città e scoprono l’amore. Ishun ordina ai suoi uomini di trovarli e separarli per evitare umiliazioni pubbliche: la loro relazione può causare la rovina di Ishun e delle rispettive famiglie.

“Niente è più imprevedibile del destino di una persona. Non avrei mai pensato che le cose potessero cambiare così tanto in un solo giorno…” (Osan)

A story from Chikamatsu viene girato nel 1954, anno di Sansho the Bailiff e the The Woman in the Rumor, un periodo di grande splendore creativo per Kenji Mizoguchi. È proprio la prova di Kyōko Kagawa in Sansho a convincere il regista che l’attrice sarebbe stata ideale per la parte di Osan; la scelta di Kazuo Hasegawa è invece da attribuirsi alle insistenze del direttore della Daiei, poiché Mizoguchi non amava lavorare con le star. Il rapporto iniziale tra i due fu molto teso: la presenza di Hasegawa, divo di prima grandezza formatosi nel teatro Kabuki (anche come onnagata, ovvero attore specializzato in ruoli femminili) sembrava porsi in contrasto con la visione di Mizoguchi, ma durante la lavorazione l’intesa tra i due artisti si fece sempre più profonda.

Basato sull’opera teatrale di marionette Daikyōji mukashi goyomi di Chikamatsu Monzaemon, il film è ambientato principalmente a Kyoto durante il periodo Edo. La sua realizzazione fu preceduta da una preparazione meticolosa, da un’accurata ricerca storica e da una comparazione filologica di stili, costumi e acconciature. L’aiuto regista Yazo Miyajima ha lasciato un’importante testimonianza relativa alle varie fasi della produzione, che comprese lo studio di usi e costumi della società feudale, dell’oppressione femminile, dell’abuso perpetrato dai potenti nei confronti delle classi inferiori sino alla “storia delle punizioni perverse” (fig. 1 e 2).

Come spesso accade nel cinema di Mizoguchi, assistiamo alla tragedia di persone comuni vittime di una mentalità crudele e di ipocrite leggi morali. Ma questa Storia di Chikamatsu è anche la storia di una liberazione attraverso l’amore, trasposta in un racconto limpido ed essenziale. Mizoguchi attua una sintesi di découpage classico e modernità, sorprendendo lo spettatore con sequenze più segmentate rispetto al suo stile consueto. È un film da cui non si esce indenni, in cui si verifica una sublime convergenza di elementi differenti: in particolare, la recitazione stilizzata di Kazuo Hasegawa viene assorbita e magnificata dal realismo di Mizoguchi. Con una prova tra le più dolorose e struggenti mai viste sullo schermo, Hasegawa spezza il cuore degli spettatori e trova il suo corrispettivo nella grazia giovane e trascendente di Kyōko Kagawa.

Nell’illuminare il destino di Osan e Mohei, la fotografia di Kazuo Miyagawa sembra costantemente individuare un regno argenteo di ombre che contrasta con la durezza della casa di Ishun, marito di Osan e despota lascivo e immorale. L’arte di Miyagawa è essenziale nell’esprimere una delle tensioni più forti del cinema di Mizoguchi, quella verso un “oltre” spirituale che accoglie il dolore umano.
Mizoguchi individua le due prigionie di Osan e Mohei ingabbiandoli attraverso perimetri spaziali, arredi e fusuma, ma anche servendosi del motivo ricorrente dello schermo “diviso” al centro, mediante colonne, travi o altre componenti profilmiche che inducono una frattura (fig 3 e 4). Il regista delinea, tramite la composizione, un mondo di elementi opposti, una dualità sfruttati/dominatori antropologicamente connaturata alla società tanto da saturarla anche esteticamente. Inoltre, l’uso di prospettive oblique rende ancora più palpabile la sfasatura esseri umani/mondo.

Alla casa/alveare di Ishun, in cui una moltitudine umana (servitù, operai, dipendenti, funzionari) è suddivisa in rigide gerarchie evidenziate da complesse scelte compositive e dall’uso della profondità di campo, si contrappone l’assoluta bellezza lunare degli esterni. Illuminata dalla notte, immersa nel silenzio, la natura offre la sua presenza consolatoria e distante. I fiori, gli specchi d’acqua, i profili delle colline diventano luoghi remoti di possibilità. Osan e Mohei vi trovano riparo dopo un rocambolesco inseguimento tra vicoli cittadini in cui sono ammassati numerosi barili (5): una scena d’azione di inusuale dinamismo.

Soli e immersi tra le brume, i fuggitivi Mohei e Osan si abbandonano ai sentimenti (6). In un gesto di gentilezza e devozione, Mohei solleva l’amata per trasportarla lungo il fiume; e basterebbe questa scena per comprendere l’incommensurabile talento di Hasegawa, che si muove come se Kyōko Kagawa non avesse alcun peso. Si tratta di un momento-chiave, in cui percepiamo come i due personaggi non obbediscano più alle leggi di questa terra. Gravità e fatica non hanno più alcun significato; la notte è liberatoria e spirituale, e Osan appare sempre più bella durante l’affannoso e tortuoso tragitto.

Trasfigurati dalle emozioni, i due diventano spiriti pervasi d’amore:“Ti prego, ascoltami, affinché nessuna parte del mio cuore rimanga in questo mondo. Ti amo da molto tempo”. La rigida compostezza imposta da ruoli e formalità viene abbandonata e i corpi di Osan e Mohei si cercano con intensità straziante e disperata. Sulla piccola barca che attraversa il lago Biwa la passione li travolge sospingendoli alla deriva (7); la coppia si abbraccia ardentemente mentre l’imbarcazione inizia a ondeggiare. L’idea del doppio suicidio viene rigettata di fronte al desiderio di divenire uno, finalmente vivi.

E né la crudeltà ottusa di Ishun, né il tradimento della madre di Osan o del padre di Mohei, che li consegnano alle autorità per salvaguardare privilegi o un “onore” mortifero, potranno più distoglierli dal percorso verso la luce. Catturati e condotti in processione nelle vie della città, in mezzo a una folla tumultuosa di spettatori, Osan e Mohei sono una visione di libertà e distacco dalle tragedie umane. Con la beatitudine concessa ai martiri, e le mani strette l’una nell’altra, la coppia porta scritta sul volto una suprema serenità che sconvolge i passanti (8).

Mizoguchi resta fedele ai codici del Kabuki – grazie anche alla colonna sonora inquieta e dissonante di Fumio Hayasaka – ma il racconto non perde mai la sua verità profonda, lasciando che la vita prevalga sulla rappresentazione. Il formalismo del teatro classico e popolare intona la sua storia universale di crudeltà e sopraffazione, ma la regia di Mizoguchi per la prima volta apre al “lieto fine” con la vittoria, in senso romantico, dello spirito umano. Il titolo europeo – Gli amanti crocifissi – non rende giustizia al senso di elevazione che spira dal film, dal quale intravediamo una sorta di Paradiso, un’innocenza ritrovata.

8.

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Una replica a “A STORY FROM CHIKAMATSU (Chikamatsu Monogatari), 1954, Kenji Mizoguchi”

  1. Avatar THE STORY OF THE LAST CHRYSANTHEMUMS (Zangiku Monogatari, 1939), Kenji Mizoguchi – Nubi Fluttuanti

    […] che pure è presente in The Story of the Last Chrysanthemum, non raggiunge le vette del sublime A story from Chikamatsu (1954) perché in realtà qui non ci troviamo di fronte alla storia di una coppia, ma di due entità […]

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