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Siamo nel periodo Heian. L’apparizione di uno strano arcobaleno bianco porta sventure su Kyoto. L’imperatore incarica l’indovino Yasunori di consultare il libro di segreti “The Golden Crow” per placare i timori del popolo. Yasunori ha due discepoli, Yasuna e Doman; la moglie di Yasunori, amante di Doman, fa uccidere il marito e ruba il libro dei segreti. Yasuna e la sua amata Sakaki, figlia adottiva di Yasunori, vengono accusati del crimine. Sakaki muore tra orribili torture e Yasuna, sopraffatto dal dolore, impazzisce. Una kitsune (Volpe) si innamora di lui…
Con un nome d’arte – Tomu – che scritto in kanji significa “sputare sogni”, Uchida ha attraversato mezzo secolo di storia giapponese incarnandone lo spirito, le contraddizioni, le tensioni tra tradizione e spinte avanguardistiche. Il suo cinema fieramente di genere, ma sempre intensamente personale (celebri i suoi attriti con le case di produzione Nikkatsu e Toei, nei confronti delle quali manifestò sempre una irriducibile libertà artistica), ha lasciato un segno profondo nel cinema nipponico, oscillando tra realismo, sperimentazione figurativa, storia e folclore.
The Mad Fox non è il suo lavoro più conosciuto, ma è certamente una delle sue opere più libere e personali; un film ibrido e meraviglioso nel senso più puro del termine, che va ad aggiungersi alle frequenti contaminazioni tra teatro classico (Kabuki e Bunraku) e cinema operate da registi quali Teinosuke Kinugasa, Yasujirō Ozu, Keisuke Kinoshita, Kenji Mizoguchi, Kon Ichikawa, Masahiro Shinoda.

Film di continui slittamenti di identità labili e fantasmatiche, The Mad Fox è una vicenda di amori impossibili tra forme diverse, segnata dalla figura retorica della separazione – mediante l’uso ricorrente di grate, divisori, cancelli – e da un senso di collasso della realtà. Il reale si incrocia con lo spazio del sogno e la dimensione del fantastico; creature differenti anelano a sentimenti proibiti, divinità animiste si innamorano di volti umani, i vivi e i morti si incontrano tra i fiori di un impalpabile paradiso.
Uchida, che nel 1962 ha 64 anni e ha vissuto la nascita dell’industria cinematografica, le trasformazioni del Paese, la guerra, la prigionia in Cina e la difficile ricostruzione del dopoguerra, conserva intatto il proprio vitale entusiasmo e guarda al teatro classico come a un affascinante terreno sperimentale. The Mad Fox adotta la frontalità del palcoscenico per movimentarla con complessi carrelli, di cui il regista si serve con grande naturalezza, ottenendo fluidi mutamenti di prospettiva apparentemente senza sforzo. Contemporaneamente la presenza di travi e divisori rielabora gli spazi, incornicia volti e corpi ricavando primi piani e dettagli.

C’è, nelle immagini di Uchida, un costante riferimento all’atto del guardare e un disvelamento della presenza di un pubblico o un astante. Il regista arriva a mostrare, in una sequenza sorprendente, la passerella che consente agli attori di raggiungere la scena: la finzione è rivelata. Ma in altri momenti il regista rigetta la divisione tra palcoscenico e platea “trascinando” lo spettatore all’interno dell’azione scenica, mediante effetti di tridimensionalità, angolazioni inedite e primi piani di intensità carnale.
In questa triste e popolare vicenda di amanti divisi, l’elemento grafico (forme, linee, colori) diviene strumento espressivo di emozioni e sofferenza umane. Il film si innerva di modernità nei momenti più tragici: la morte, ad esempio, non viene mai abbellita o composta e si rivela nel suo realistico orrore (impressionante la scena della tortura di Sakaki). Ma Uchida offre ai suoi personaggi la sponda di un vivido sogno (o follia?) in cui, seppur brevemente, si realizza l’incanto di un amore che vince il destino. Attraverso l’arte, il regista oppone romanticamente una ribellione al pessimismo e al brutale dolore della realtà.
Nel momento in cui Yasuna impazzisce per la morte dell’amata Sakaki, egli si trasfigura, “diventando” lei. Da questo momento il film galleggia letteralmente nel sogno. Yasuna danza con grazia sofferta, mentre trucchi di una bellezza commovente – palcoscenici rotanti, fondali che scompaiono, trionfi cromatici, fiori e farfalle che invadono lo schermo – ci proiettano in una realtà altra. Il realismo della morte cede al sogno dell’amore e dell’arte, e assistiamo al ricongiungimento con l’amata in un regno onirico in senso surrealista. Scene realizzate con tecniche di animazione, che Uchida inserisce frequentemente, portano alle estreme conseguenze, in senso cinematografico, il gusto Kabuki del fantastico.



Si prova un profondo turbamento nei confronti di una follia d’amore che provoca un mutamento di forme – da maschile a femminile, da animale a umano, da spirito a corpo. Il sentimento diviene trasformazione del sé nel tentativo di divenire una cosa sola con l’essere amato. Uchida pervade le immagini di una suggestione magica, alterna fuochi mistici ed emozioni erotiche. Indimenticabile la sequenza in cui la Volpe lecca le ferite di Yasuna con sensuale e selvatico fervore: il regista filma tutto in primissimo piano, concedendoci un piacere voyeuristico che allude, in filigrana, alla liberazione sessuale che proprio negli anni ’60 invadeva gli schermi.

La strada aperta da Kinoshita con La Ballata di Narayama viene ripercorsa da Uchida in una personale reinterpretazione, tra variazioni, digressioni di forme e tecniche, alla ricerca dell’annullamento dei confini tra le arti – film, teatro, musica, animazione e pittura – in una continuità di stimoli sensoriali che si traduce, per lo spettatore, in un “volo” (l’elevazione di cui parlava Baudelaire) oltre la finitezza umana e le costrizioni dell’esistenza.
La musica tradizionale, ma con tocchi di elettronica, del compositore Chūji Kinoshita (fratello di Keisuke e autore della colonna sonora di Narayama) segna una continuità di ricerca e un legame con la classicità, in seno alla quale Uchida ha formato il proprio mestiere registico.
“Amore, oh amore – non innamorarti mai“, canta la voce narrante nell’enigmatico finale, in cui Yasuna sembra trovare una liberazione finale nella follia e nell’eterna separazione dalla realtà. Il suo corpo si tramuta in un bozzolo di pietra, ma su di lui veglia incessante una fiammella, custode dei segreti dei sentimenti umani.
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English version
During the Heian period, the appearance of a strange white rainbow brings misfortune to Kyoto. The emperor instructs the fortune teller Yasunori to consult the book of secrets “The Golden Crow” to allay the people’s fears. Yasunori has two disciples, Yasuna and Doman; Yasunori’s wife, Doman’s lover, has her husband killed and steals the book of secrets. Yasuna and her beloved Sakaki, Yasunori’s adopted daughter, are accused of the crime. Sakaki dies under horrific torture, and Yasuna, overcome by grief, goes mad. A kitsune (fox) falls in love with him…
Uchida, with a pen name—Tomu—which, written in kanji, means “to spit dreams,” has spanned half a century of Japanese history, embodying its spirit, its contradictions, and the tensions between tradition and avant-garde tendencies. His fiercely genre-focused yet intensely personal cinema (his clashes with production companies Nikkatsu and Toei are well-known), has left a profound mark on Japanese cinema, oscillating between realism, figurative experimentation, history, and folklore.
The Mad Fox is certainly one of his freest and most personal work; a hybrid and marvelous film in the purest sense of the word, which joins the frequent crossovers between classical theater (Kabuki and Bunraku) and cinema by directors such as Teinosuke Kinugasa, Yasujirō Ozu, Keisuke Kinoshita, Kenji Mizoguchi, Kon Ichikawa, and Masahiro Shinoda.
A film of constant shifts between fleeting and phantasmal identities, The Mad Fox is a story of impossible love between different forms, characterized by the rhetorical figure of separation—through the recurring use of grates, dividers, and gates—and by a sense of reality’s collapse. Reality intersects with the space of dreams and the realm of fantasy; different creatures yearn for forbidden feelings, animist deities fall in love with human faces, the living and the dead meet among the flowers of an impalpable paradise.
Uchida, who was 64 in 1962 and had lived through the birth of the film industry, the country’s transformations, the war, imprisonment in China, and the difficult postwar reconstruction, retains his vital enthusiasm intact and looks to classical theater as a fascinating experimental terrain. The Mad Fox embraces the frontality of the stage and twists it with complex tracking shots, which the director uses with great ease, achieving fluid shifts of perspective that seem effortless. At the same time, the presence of beams and dividers reworks the spaces, framing faces and bodies to create close-ups and details.
In Uchida’s images, there is a constant reference to the act of looking and a revelation of the presence of an audience or bystander. The director even shows, in a surprising sequence, the catwalk that allows the actors to reach the stage: the fiction is revealed. But at other moments, the director rejects the division between stage and audience, taking the viewer into the action, through three-dimensional effects, unusual angles, and intensely carnal close-ups.
In this sad and popular story of separated lovers, the graphic element (shapes, lines, colors) becomes a tool for expressing human emotion and suffering. The film is imbued with modernity in its most tragic moments: death, for example, is never embellished or composed, but is revealed in all its realistic horror (the scene of Sakaki’s torture is shocking). But Uchida offers his characters the shores of a vivid dream (or madness?) in which, however briefly, the enchantment of a love that conquers destiny is realized. Through art, the director romantically opposes the pessimism and brutal pain of reality.
When Yasuna goes mad over the death of his beloved Sakaki, he is transfigured, “becoming” her. From this moment, the film literally floats in a dream. Yasuna dances with anguished grace, while touchingly beautiful tricks—rotating stages, disappearing backdrops, triumphs of color, flowers and butterflies invading the screen—project us into another reality. The realism of death yields to the dream of love and art, and we witness the reunion with his beloved in a surrealist dreamlike realm. Scenes created with animation techniques, which Uchida frequently employs, take Kabuki’s taste for fantasy to its cinematic extreme.
We experience profound turmoil in the face of a madness of love that causes a transformation of form—from male to female, from animal to human, from spirit to body. The feeling becomes a transformation of the self in the attempt to become one with the beloved. Uchida inserts images of a magical suggestion, alternating mystical fires and erotic emotions. The sequence in which the Fox licks Yasuna’s wounds with sensual and wild fervor is unforgettable: the director films everything in extreme close-up, granting us a voyeuristic pleasure that hints, subtly, at the sexual liberation that was invading the screens in the 1960s.
The path pioneered by Kinoshita with The Ballad of Narayama is retraced by Uchida in a personal reinterpretation, through variations and digressions of form and technique, seeking to blur the boundaries between the arts—film, theater, music, animation, and painting—in a continuity of sensorial stimuli that translates, for the viewer, into a “flight” (the elevation Baudelaire spoke of) beyond human finitude and the constraints of existence.
The traditional music, with electronic touches, by composer Chūji Kinoshita (Keisuke’s brother and the composer of Narayama‘s soundtrack) marks a continuity of research and a connection to classicism, within which Uchida has shaped his directorial craft.
“Love, oh love—never fall in love,” sings the narrator in the enigmatic finale, in which Yasuna seems to find final liberation in madness and eternal separation from reality. His body turns into stone, but a tiny flame, guardian of the secrets of human feelings, watches over him unceasingly.























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