TOKYO GIRL (Tōkyō Joshi Zukan, 2016), Yuki Tanada

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La vita di Aya (Asami Mizukawa) dagli anni del liceo nella cittadina rurale di Akita fino ai suoi primi quarant’anni nella travolgente Tokyo. La storia esplora i suoi sogni, le ambizioni e la vita sentimentale in un contesto caratterizzato dalle mutevoli aspettative sociali per le donne nel Giappone moderno.

Attenta osservatrice di personaggi femminili liberi e autodeterminati, autrice di opere molto differenti tra loro (si pensi a One million yen girl, Romance Doll, o a My broken Mariko), Yuki Tanada è naturalmente incline a sperimentare generi e stili – dal realismo alla suggestione poetica, dallo psicologismo alla stilizzazione di ispirazione manga – al fine di accostarsi, da una pluralità di prospettive, a quel mistero del vivere che è il nucleo della sua investigazione.
Basata su un celebre romanzo apparso a puntate sul sito web Tokyo Calendar, la serie Tokyo Girl (nota anche come “Tokyo Girls’ Guide”) copre in 11 brevissimi episodi vent’anni di vita della sua protagonista. La particolare brevità di ogni episodio (circa 20 minuti) spinge Tanada a focalizzarsi sul mondo interiore dei personaggi, affastellando flussi di coscienza, ellissi, memorie spontanee ed emozioni colte nel loro farsi. Un lavoro che in parte è fenomenologico, con l’osservazione capillare di Aya e delle sue reazioni al mondo circostante, e in parte pura esplorazione introspettiva, riproduzione del pensiero disordinato e irrazionale della protagonista.

Nell’episodio di apertura il sogno di Tokyo brilla di promesse e occasioni agli occhi dell’adolescente Aya, bloccata nella città natale di Akita. Con pochi tocchi essenziali – campi lunghissimi sulla provincia silenziosa, inquadrature di distributori di benzina, negozi dalle serrande chiuse, strade sovrastate da reticolati di fili elettrici – la regista mette in scena lo stato d’animo della ragazza attraverso una serie di correlativi oggettivi. Il vuoto che la abita è in queste immagini sul limitare tra vita e placida morte, dove il tempo sembra essersi fermato. Tanada lavora sullo spazio e sull’assenza, ma anche sul valore espressivo del colore: blu vividi, rossi accesi, in cui si annida l’intensità del desiderio di Aya. La sua osservazione della realtà che la circonda è asciutta e tagliente: “Trova un lavoro, sposati un brav’uomo, vivi un matrimonio tiepido: questo è il minuscolo cerchio in cui vivono le mie compagne di classe, che estendono la loro ambizione entro un raggio di cinque metri”.

Come tante protagoniste del cinema giapponese a partire dalla classicità, Aya si oppone caparbiamente al destino tracciato per lei dalla società e lotta per affermare se stessa. Eppure la città di Tokyo, ritratta da Tanada con un amore palpabile, vagheggiata nella sua varietà di quartieri, ciascuno con una propria cultura e antropologia (da Sancha, quartiere “giovane”, a Ebisu, per donne sole, all’elegante Yoyogi-Uehara, sino al lusso sofisticato di Ginza), diventa semplicemente uno specchio della sua solitudine. Nonostante il duro lavoro in aziende via via più prestigiose, la sottomissione alle gerarchie impiegatizie, l’acquisizione di un’immagine raffinata, Aya non trova il proprio posto: “Questa città, per quanto lo volessi, non riuscivo a raggiungerla. Non potevo attraversarne la porta, nemmeno quando era spalancata”.

Tanada e la sceneggiatrice Hisako Kurosawa scrivono dialoghi di grande intensità e naturalezza. Le parole suonano oneste e vere, appena velate di una tristezza leggera. Nè Aya, ne le altre figure femminili che si avvicendano e scompaiono, sommando il loro volto e la loro ombra a quelli di centinaia di altre lungo le strade della metropoli, lasciano trapelare il minimo accenno di autocommiserazione.
La realtà è questa: ciò che conta è da dove vieni, quanti soldi hai e quanto sei giovane”: una massima applicabile soprattutto alla vita sentimentale.
Aya vive, nel corso di vent’anni, numerose relazioni che erodono brutalmente le sue illusioni. Dopo un primo partner “puro”, abbandonato per inseguire chimeriche ambizioni, la ragazza incontra giovani ricchi e anaffettivi, uomini sposati in cerca di amanti, quarantenni in crisi. Ogni rapporto è condotto secondo regole “contrattuali” che pongono i sentimenti in secondo piano rispetto allo status. In un episodio particolarmente significativo, un facoltoso imprenditore impone ad Aya di cambiare scarpe al primo appuntamento: “La gente ti giudica dalle scarpe… il paio che stai indossando mi mette in imbarazzo”. Aya accetta, lasciandosi trattare come una proprietà e assecondando la funzione economico-sociale del loro rapporto. Sullo sfondo, la notte di Tokyo luccica di luci distanti e sfocate.

La regista ama profondamente la sua fragile e confusa protagonista e non mente mai sulla sua interiorizzata complicità nei confronti di un mortificante classismo. Sedotta da simboli del lusso come abiti firmati, oggetti, cene al Juel Robuchon, Aya rispetta in silenzio le nette linee (gerarchiche e sessiste) tracciate dalla società, finché l’esperienza non risveglierà in lei una nuova consapevolezza. Tanada compone un racconto di formazione fatto di luci e ombre, speranze e disillusioni; e ci fa innamorare di un paesaggio urbano, di uno scorcio di ponti e strade, e soprattutto della composita collettività femminile che abita la città correndo sui tacchi o nascondendo una lacrima. L’affetto della regista si esprime non solo nei volti, nei primi piani digressivi su fuggevoli passanti; ma anche sulla tecnica, qui particolarmente fresca, delle brevi “interviste” a personaggi secondari. Tokyo Girl anticipa quel dialogo tra personaggio e spettatore tipico di serie di successo come Fleabag (2016-18); ma c’è qui una sincerità più profonda, un approccio che rifiuta facili compiacimenti per concentrarsi sulla verità degli esseri umani posti davanti alla macchina da presa.
La regia, più cinematografica che televisiva, è sempre molto attenta al rapporto spaziale tra ambienti e figura umana: perdersi a Tokyo, affacciarsi sulla sua infinità, coglierne le molteplici sollecitazioni sensoriali – colori, profumi, notturna vertigine – sono momenti di un’avventura dello spirito cui Tanada ci rende partecipi, con un lirismo leggero e di rara bellezza.
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English Version

The life of Aya (Asami Mizukawa), from her high school years in the rural town of Akita to her early forties in bustling Tokyo. The story explores her dreams, ambitions, and love life against a backdrop of shifting social expectations for women in modern Japan.

A keen observer of free-spirited and self-determined female characters, and the author of highly diverse works (think of One Million Yen Girl, Romance Doll, or My Broken Mariko), Yuki Tanada is naturally inclined to experiment with genres and styles—from realism to poetic suggestion, from psychologism to manga-inspired stylization—in order to approach, from a variety of perspectives, the mystery of life that lies at the core of her analysis.
Based on a popular novel that appeared serialized on the website Tokyo Calendar, Tokyo Girl (also known as “Tokyo Girls’ Guide”) covers twenty years of its protagonist’s life in 11 short episodes. The remarkable brevity of each episode (about 20 minutes) pushes Tanada to focus on the characters’ inner worlds, juxtaposing streams of consciousness, ellipses, spontaneous memories and emotions. This work is partly phenomenological, with detailed observation of Aya and her reactions to the world around her, and partly pure introspective exploration, reproducing the protagonist’s disordered and irrational thinking.

In the opening episode, the dream of Tokyo shines with promise and opportunity in the eyes of the adolescent Aya, stranded in her hometown of Akita. With a few essential touches—very long shots of the silent province, shots of gas stations, shuttered shops, streets draped in electric wires—the director depicts the girl’s state of mind through a series of visual correlatives. The emptiness that inhabits her is, in these images, on the threshold between life and placid death, where time seems to stand still. Tanada works on space and absence, but also on the expressive value of color: vivid blues, bright reds, which capture the intensity of Aya’s desire. Her observation of the reality around her is dry and cutting: “Get a job, marry a good man, live a lukewarm marriage: this is the tiny circle in which my classmates live, extending their ambition within a radius of five meters.”

Like so many protagonists of Japanese cinema since classicism, Aya stubbornly resists the destiny society has laid out for her and struggles to assert herself. Yet the city of Tokyo, portrayed by Tanada with palpable love, dreamed of in its variety of neighborhoods, each with its own culture and anthropology (from Sancha, a “young” neighborhood, to Ebisu, for single women, to the sophisticated luxury of Ginza), becomes simply a mirror of loneliness. Despite her hard work at increasingly prestigious companies, her submission to the rules and her pursuit of a refined image, Aya can’t quite find her place: “As much as I wanted to, I couldn’t reach this city. I couldn’t walk through its doors, even when they were wide open.”

Tanada and screenwriter Hisako Kurosawa write dialogue of great intensity and naturalness. The words ring honest and true, barely veiled by a light sadness. Neither Aya nor the other female figures who appear in the film disappear; their faces and shadows, added to those of hundreds of others along the streets of the metropolis, betray even the slightest hint of self-pity.
“The truth is this: what matters is where you come from, how much money you have, and how young you are”: a motto especially applicable to love life.
Over the course of twenty years, Aya experiences numerous relationships that brutally erode her illusions. After a first “pure” partner, abandoned to pursue chimerical ambitions, the girl meets rich and unaffectionate young men, married men looking for lovers, and forty-year-olds in crisis. Each relationship is conducted according to “contractual” rules that place feelings second to status. In one particularly significant episode, a wealthy businessman forces Aya to change shoes on the first date: “People judge you by your shoes… the pair you’re wearing embarrasses me.” Aya accepts, allowing herself to be treated like property and fulfilling the economic-social function of their relationship. In the background, the Tokyo night shimmers with distant, blurry lights.

The director deeply loves her fragile and confused protagonist and never lies about her internalized complicity in a mortifying classism. Seduced by symbols of luxury such as designer clothes, objects, and dinners at Juel Robuchon, Aya silently respects the lines (hierarchical and sexist) drawn by society, until the experience awakens a new awareness within her.
The director composes a coming-of-age story of light and shadow, hope and disillusionment; and she makes us fall in love with an urban landscape, a glimpse of bridges and streets, and above all with the diverse female community that inhabits the city, running on high heels or hiding a tear. Tanada’s affection is expressed not only in the digressive close-ups of fleeting passersby, but also in the technique, particularly refreshing here, of short “interviews” with secondary characters. Tokyo Girl anticipates the dialogue between character and viewer typical of successful series like Fleabag (2016-18); but there is, here, a deeper sincerity, an approach that rejects easy complacency to focus on the truth of the human beings placed before the camera.
The cinematic direction is always very attentive to the spatial relationship between environments and the human figure: losing oneself in Tokyo, looking out over its infinity, grasping its multiple sensory stimuli – colors, scents, nocturnal vertigo – are moments of a spiritual adventure in which Tanada makes us participate, with a light and beautiful lyricism.

Una replica a “TOKYO GIRL (Tōkyō Joshi Zukan, 2016), Yuki Tanada”

  1. Avatar DONNE E DESIDERIO NEI JDRAMA – WOMEN AND DESIRE IN JDRAMA – Nubi Fluttuanti

    […] erotismo imperscrutabile, rivelando un’ostinata brama di libertà. Se, come dice Aya in Tokyo Girl (2016), la società circoscrive l’esistenza femminile entro un raggio di cinque metri – […]

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Nubi Fluttuanti è un progetto di Marcella Leonardi dedicato al cinema giapponese classico e contemporaneo.
Nubi Fluttuanti is a project by Marcella Leonardi dedicated to classic and contemporary Japanese cinema.