I AM KEIKO (Keiko desu kedo, 1997), Sion Sono

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Io sono Keiko.
Questo film finirà tra un’ora, un minuto, un secondo.
L’orologio segna le 7.22 e 30 secondi. Questo significa che il film finirà alle 8.23 e 31 secondi. Anche adesso, mentre parlo, un secondo sta passando dopo l’altro.

Il cinema di Sion Sono (che ci manca moltissimo) è talmente enigmatico, contraddittorio e imprevedibile da aver suscitato, in tanta interpretazione critica, la necessità di distinguere dicotomicamente le opere intimiste e stilisticamente contemplative dalla produzione più irruente e anarchica. Eppure la radice del lavoro di Sono è la medesima: una profonda sensibilità poetica che gli impone di comporre, attraverso le scelte formali, il male di vivere, la prigionia della solitudine e la percezione di una bellezza coesistente al dolore.

In un certo senso è come se Sono fosse rimasto eternamente adolescente, trafitto intensamente dalla caduta delle illusioni e attonito di fronte al destino umano. Il suo cinema articola lo spettro della sua sensibilità tra gli estremi di un “urlo” artistico violento e tempestoso e un complementare, rarefatto raccoglimento spirituale, spesso conciliati all’interno della medesima opera. Questo è particolarmente evidente in I Am Keiko, film del 1997 prodotto con grande esiguità di mezzi – una camera, pochi mobili e oggetti – in cui Sono mette in scena alcuni elementi centrali e ricorrenti della propria poetica, come l’affermazione del sé, la propensione a ritrarre le aporie del femminile e, più in generale, un’alienata afasia nei confronti della realtà.

In I Am Keiko torna la necessità, manifestata sin dagli esordi (I Am Sion Sono!!, 1984) di dichiarare la propria identità, tracciare un manifesto del sé servendosi di indizi scarni e frammentari. Una ricerca scandita dallo scorrere del tempo, grazie alla presenza “animista” di un orologio quale inesorabile metronomo del vivere (un elemento che troveremo anche in The Lonely 19:00). Keiko enumera secondi e minuti in una costante, ritmica cantilena, enunciando lo spazio matematico in cui si agita lo spirito dell’uomo. Questa messa in scena del sé si compone anche di finzioni, travestimenti e slittamenti identitari (che ritroveremo anche in Antiporno, 2016), come testimoniano i finti notiziari “Keiko’s news” in cui la ragazza appare ogni volta diversa, prestandosi a un “come tu mi vuoi” ludico e malinconico.

Nel corso del film Sono ci dona intensissimi primi piani della ragazza, avvalorando il principio, già di Dreyer e Bergman, secondo cui il volto umano è il paesaggio cinematografico più bello. Sul viso di Keiko trascorrono ombre, declivi e malinconie, mentre i suoni, astratti e ovattati, sembrano provenire da galassie lontane (un anticipo dell’immaginario di The Whispering Star, 2015). Il regista sembra sottolineare come la presenza di Keiko, all’interno delle coordinate spazio-temporali, sia precaria e incidentale. Sul tavolo, in una scatola quadrata, le ossa del padre morto di cancro: fragili e sbiancate, erose dall’impermanenza dell’universo. Keiko ha sottratto altri oggetti alla sparizione — un orologio, una penna, un pacchetto di Gauloises — per farne prove tangibili di un passaggio che le sue dita sfiorano con delicatezza.

Sono colloca la ragazza all’interno di immagini fisse e dall’intensa qualità grafica, in cui composizione e colore stabiliscono uno stato d’animo: i rossi e i gialli sono così intensi da ferire, mentre le forme, geometriche e fredde, non concedono alcun conforto. C’è, però, il calore del sole in controluce, la finestra contro cui Keiko si staglia poggiando le mani sul vetro. Vestita di bianco e con i lunghi capelli sciolti sulle spalle, ci appare come un triste Yūrei rimasto intrappolato nel mondo dei vivi. In altre occasioni, invece, il regista lascia che la ragazza ci osservi stabilendo con noi un contatto quasi sovrannaturale, un incontro da una differente dimensione dalla quale spira una muta richiesta di aiuto. Certamente, I Am Keiko è tra le esperienze più intime ed emozionanti che un film possa offrire allo spettatore.

La gentilezza con cui Sono si accosta all’animo di Keiko confluisce, di contro, in uno stile inquieto e violentemente subliminale, con cui il regista “assalta” le nostre percezioni addormentate. Gli statici ritratti della ragazza sono interrotti da inserti puramente cromatici, violenti flash di colore che rimandano a una condizione di caos emotivo: il dolore colto nella sua luce tagliente, o l’irrazionalità del sentire giovanile. Come un dadaista moderno, o forse suggestionato dalla ricerca di Derek Jarman in Blue (1993), Sono affida al monocromo il potere di destabilizzarci, e di dissezionare la vita di Keiko in un diario sensoriale.
Irriducibilmente poeta prima ancora che regista, Sono ricorre al potere della forma, del suono, della figura retorica (metonimie, ellissi, allitterazioni verbali e visive) per lasciarci un segno forte dell’esistenza di Keiko, al punto da travalicare lo spazio dell’immagine. Dopo la liberatoria fuga orizzontale, filmata con un lungo carrello che riprende i saltelli di Keiko nella neve (un’infanzia ritrovata?), la sua sparizione ci coglie impreparati:
Questo film dura un’ora, un minuto e un secondo.
Restano solo dieci secondi.
9-8-7-6-5-4-3-2-1… 0.


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English Version

I am Keiko.
This film is finished within 1 hour 1 minute 1 second.
The clock says 7:22 and 30 seconds. This means the film will end at 8:23 and 31 seconds. Even now, as I speak, one second after another is passing by.


The cinema of Sion Sono is so enigmatic, contradictory, and unpredictable that it has prompted, in much critical interpretation, the need to draw a dichotomy between his intimate and stylistically contemplative works from his more impetuous and anarchic ones. Yet the root of Sono’s work is the same: a profound poetic sensibility that compels him to compose, through the discipline of form, the burden of living, the imprisonment of solitude, and the perception of a beauty coexisting with pain.

In a certain sense, it is as if Sono had remained eternally adolescent, intensely transfixed by the collapse of illusions and astonished by human destiny. His cinema articulates the spectrum of his sensibility between the extremes of a tempestuous artistic outcry and a rarefied spiritual contemplation, often reconciled within the same work. This is particularly evident in I Am Keiko, a 1997 film produced with very limited resources—one room, a few pieces of furniture and objects—in which Sono showcases some of the central and recurring elements of his poetics, such as self-affirmation, a propensity to portray the aporias of femininity, and, more generally, an estranged aphasia in relation to reality.

I Am Keiko revisits the need, manifested since his debut (I Am Sion Sono!!, 1984), to declare one’s identity, to draw a manifesto of the self using sparse and fragmentary clues. A quest punctuated by the passage of time, thanks to the “animistic” presence of a clock as an inexorable metronome of life (an element we also find in The Lonely 19:00). Keiko counts seconds and minutes in a constant, rhythmic chant, defining the mathematical space within which the human spirit stirs. This staging of the self is also composed of fictions, disguises, and identity shifts (which we also find in Antiporno, 2016), as evidenced by the fake news bulletins “Keiko’s news”, in which the girl appears different each time, lending itself to a playful and melancholic “as you want me.”

Throughout the film, Sono gives us intense and lingering close-ups of the girl, confirming the principle, already established by Dreyer and Bergman, that the human face constitutes cinema’s most sublime landscape. Shadows, slopes, and melancholy pass across Keiko’s face, while the sounds, abstract and muffled, seem to come from distant galaxies (a foretaste of the imagery of The Whispering Star, 2015). The director seems to emphasize how Keiko’s presence, within the space-time coordinates, is precarious and incidental. On the table, in a square box, lie the bones of her father, who died of cancer: fragile and bleached, eroded by the impermanence of the universe. Keiko has removed other objects from the disappearance—a watch, a pen, a pack of Gauloises—to make them tangible evidence of a passage her fingers delicately touch.

Sono places the girl within still images with an intense graphic quality, in which composition and color establish a mood: the reds and yellows are so intense they hurt, while the shapes, geometric and cold, offer no comfort. There is, however, the warmth of the backlit sun, the window against which Keiko stands, resting her hands on the glass. Dressed in white and with her long hair loose on her shoulders, she appears to us like a sad yūrei trapped in the world of the living. On other occasions, however, the director allows the girl to observe us, establishing an almost supernatural connection with us, an encounter from a different dimension emanating a silent cry for help. Certainly, I Am Keiko is among the most intimate and moving experiences a film can offer the viewer.

The gentleness with which Sono approaches Keiko’s soul flows, in turn, into a restless and violently subliminal style, with which the director “assaults” our dormant perceptions. The static portraits of the girl are interrupted by purely chromatic inserts, violent flashes of color that evoke a state of emotional chaos: pain captured in its cutting light, or the irrationality of youthful feelings. Like a modern Dadaist, or perhaps inspired by Derek Jarman’s Blue (1993), Sono entrusts monochrome with the power to destabilize us, dissecting Keiko’s life in a sensorial diary.
Irreducibly a poet even before being a director, Sono uses the power of form, sound, and rhetorical devices (metonymy, ellipsis, verbal and visual alliteration) to leave us a strong impression of Keiko’s existence, to the point of transcending the space of the image.
After the liberating horizontal escape, filmed with a long tracking shot of Keiko hopping through the snow (a rediscovered childhood?), her disappearance catches us off guard:
This film is finished within 1 hour 1 minute 1 second.
There are only 10 seconds left.
9-8-7-6-5-4-3-2-1… 0.

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Nubi Fluttuanti è un progetto di Marcella Leonardi dedicato al cinema giapponese classico e contemporaneo.
Nubi Fluttuanti is a project by Marcella Leonardi dedicated to classic and contemporary Japanese cinema.