DONNE E DESIDERIO NEI JDRAMA – WOMEN AND DESIRE IN JDRAMA

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Se le donne nel Giappone contemporaneo sono soggette a discriminazioni e pressioni sociali derivanti da una mentalità patriarcale tuttora radicata, l’arte – nella forma popolare della serialità televisiva – guarda al futuro, osservando la condizione femminile e immaginando nuove ipotesi, in particolare nuove espressioni di libertà sessuale e sentimentale.
Negli ultimi anni l’ampia e varia produzione di j-drama è andata a comporre, con grande naturalezza, la mappatura di un desiderio femminile sempre più libero e antitradizionalista. Le donne, protagoniste pensanti e attente osservatrici, appaiono ricettive nei confronti di un mondo in trasformazione che si riflette sul loro io individuale. Sensibili e curiose, le figure femminili sono portatrici di un desiderio rivoluzionario, di emozioni nude che incrinano le grigie pareti della convenzione e della rispettabilità.

Donne-agenti del caos

Se i personaggi maschili sembrano assecondare passivamente le regole dello status sociale, requisito essenziale per far parte della collettività, la protagonista dei j-drama si pone spesso come portatrice di caos e movimento.
In Learning to Love (2025) la trentacinquenne Manami, fragile e con un tentato suicidio alle spalle, si oppone alla pratica residuale dell’omiai, o matrimonio combinato, imposta dal padre autoritario; e scopre se stessa nel rapporto con Kaoru, un giovane “lavoratore dell’entertainment notturno” che scatena in lei una passione profonda e sconosciuta. Fumino Kimura dà credibilità e delicatezza alla protagonista; la talentuosa attrice (già interprete per Fukada) trasforma il cliché dell’insegnante repressa in una figura moderna, fragile ed emblematica, lucidissima analista del proprio desiderio. Manami sfida la famiglia, lascia il lavoro e mette a repentaglio la propria rispettabilità per Kaoru, che la ricambia con altrettanta intensità. La serie, tra le migliori del 2025, si distingue non solo per la regia di un veterano quale Hiroshi Nishitani, che dissemina gli episodi di citazioni classiche, da Shimizu a Ozu; ma anche per la scrittura della talentuosa Yumiko Inoue, folgorante sin dall’incipit in cui Manami combatte con la propria inadeguatezza: “Per mia vergogna, sono ancora viva.”

Stereotipi e rovesciamenti

In quanti modi posso vivere la mia vita?”, sembrano domandarsi le protagoniste dei j-drama, turbate da sensazioni irrisolte ma anche frustrate da convenzioni e gerarchie prestabilite. La donna-agente del conflitto trova una delle sue rappresentazioni più belle nei titoli di testa di Asura (2025), in cui le attrici, guardando in camera, sferrano un pugno; un ludico “balletto di boxe” al rallentatore, metafora di pulsioni entropiche e potenti come un gancio a corta distanza.
Mogli, madri, ragazze ribelli; donne che bevono, fumano, fanno l’amore come atto sovversivo e persino politico.

In Cinderella Closet (2025) la giovane Haruka vive in piena naturalezza la propria attrazione nei confronti di Hikaru, ragazzo gender-fluid dall’aspetto alternativamente femminile e maschile. La serie, tratta da un manga, è un luminoso invito all’accettazione di un sé mutevole e dai tratti indefiniti, e immagina una società in cui nessun essere umano debba sacrificare la propria identità alla prigione di un ruolo. Prodotta da TBS, Cinderella Closet affronta il tema con grande leggerezza, combinando commedia degli equivoci e racconto di formazione. La rappresentazione della pulsione sessuale e amorosa è onirica e stilizzata, con ribaltamenti dell’iconografia classica. Nell’episodio prefinale, Haruka si curva su Hikaru carezzandogli il viso con un gesto protettivo: un’immagine simbolica frequente nei drama romantici, ma qui riproposta a ruoli rovesciati, spunto di riflessione non solo metatelevisiva ma anche critica implicita a un immaginario culturalmente imposto.

Cinderella Closet

Le donne dei j-drama stravolgono le proprie esistenze alla luce del desiderio e non hanno paura di avvicinarsi e toccare i contorni del proprio erotismo imperscrutabile, rivelando un’ostinata brama di libertà. Se, come dice Aya in Tokyo Girl (2016), la società circoscrive l’esistenza femminile entro un raggio di cinque metri – “Trova un lavoro, sposati un brav’uomo, vivi un matrimonio tiepido” – con tutte le umiliazioni e i compromessi che il contratto matrimoniale comporta, è proprio la fluviale produzione dei j-drama a mettere in luce le crisi di un modello esausto e mortificante, e allo stesso tempo rivendicare nuove correnti di desiderio.

Il lavoro più interessante dei j-drama risiede proprio nella riproposizione iniziale dello stereotipo per poi sovvertirlo. Le protagoniste di Learning to love, Love and Fortune (2018), My husband won’t fit (2019), Two husbands, one wife (2025) sono inizialmente complici di una mentalità sessista interiorizzata da generazioni, e si adoperano per onorare il modello tradizionale che le vuole mogli operose e tasselli produttivi della struttura sociale; ma la vita le sospinge nell’inquietudine di un margine – amoroso ed erotico – in cui trovare se stesse.

Metonimie: Cadere

Uno dei tropi televisivi più frequenti è la “caduta” della protagonista: tradizionalmente, la ragazza cade e viene raccolta dal principe azzurro di passaggio, che le impedisce di farsi male con il suo virile intervento. Non di rado, la caduta implica un accidentale “bacio” tra i protagonisti. Negli ultimi anni, però, le serie giapponesi hanno offerto variazioni significative, frammenti ludici di un nuovo discorso amoroso.

In Learning to love la protagonista Manami cade, ma non viene affatto sorretta dal giovane Kaoru. Il rovesciamento dell’archetipo prevede un amore vissuto non all’ombra della protezione maschile (con il suo corollario di sottomissione), ma l’incontro con sentimenti destabilizzanti e non conformi innescati da un partner molto più giovane e appartenente a un mondo notturno e “immorale”.

In Love and Fortune, storia dell’amore tra l’adulta Wako e il sedicenne Iko,non c’è caduta ma smemoratezza: l’incontro fortuito avviene all’insegna della “dimenticanza” e della regressione. Wako è “senza età”, trasporta il proprio essere in una dimensione sospesa, in cui non esistono né il tempo né la morale (del resto Agnès Varda aveva percorso una strada similare con il bellissimo Kung-Fu Master, 1988). L’interprete Eri Tokunaga è particolarmente brava nel dare corpo ed emozioni alla protagonista, esprimendo una sincera innocenza che diventa gesto impacciato e sguardo di infinita purezza. La presenza di Tokunaga riesce miracolosamente a sottrarre il dramada una potenziale morbosità, mentre la regia onirica e trasfigurante di Yoshihiro Mori proietta l’amore in un mondo di sensualità naturale, rendendolo parte del fruscìo delle cose e del respiro della sera, come qualcosa di intatto e incolpevole. La serie si svolge inoltre in un contesto di esplicita cinefilia – Wako lavora in un mini-theatre – che stabilisce, secondo il principio surrealista, il primato dell’innocenza del sogno.

Un modello in crisi: il matrimonio tradizionale

Una prospettiva differente, ancorata al quotidiano e slegata da immaginari romantici, si ritrova invece In My husband won’t fit di Yuki Tanada, tra le più grandi narratrici di personaggi liberi e autodeterminati, particolarmente abile nel combinare osservazione fenomenologica ed esplorazione introspettiva. Il rapporto tra la protagonista Kumiko e il marito Kenichi è decisamente misurato e platonico: insieme condividono pasti, spese, problematiche quotidiane. Un matrimonio tiepido e contrattuale, già oggetto di profonda critica in Tokyo Girl della stessa Tanada. My husband won’t fit elabora una metafora narrativa fortissima: i due non riescono a fare l’amore, la penetrazione è impossibile, il pene “won’t fit”, non entra. Timida e silenziosa, Kumiko è però anche renitente a qualsiasi rassegnazione, e all’insaputa del marito intraprende una peregrinazione sessuale e un’iniziazione erotica attraverso rapporti con sconosciuti, talvolta brutali o rozzi, che le offrono l’appagamento di cui ha bisogno.


Anche Two husbands, one wife denuncia la crisi del modello matrimoniale attraverso la scelta consapevole di Mia, che reclama la libertà di una relazione poliamorosa. La cellula familiare tradizionale si rivela insoddisfacente e Mia, con la complicità del marito, si apre all’anello mancante, proponendo un suo ex come “completamento”. Un design for living dal sapore lubitschiano, che sogna il superamento dello stigma sociale e si apre a un futuro incerto, ma avventuroso.

Two husbands, one wife

English Version
If women in contemporary Japan are subject to discrimination and social pressures stemming from a still deeply rooted patriarchal mindset, art—particularly in the popular form of television seriality—looks to the future, observing the female condition and imagining new possibilities, especially new expressions of sexual and emotional freedom.

In recent years, the broad and diverse production of j-dramas has naturally come to map a form of female desire that is increasingly free and anti-traditionalist. Women, thoughtful protagonists and attentive observers, appear receptive to a changing world that reflects itself in their individual selves. Sensitive and curious, these female figures carry a revolutionary desire, bare emotions that crack the grey walls of convention and respectability.

Women as agents of chaos

While male characters often seem to passively comply with the rules of social status—an essential requirement for belonging to the collective—the female protagonist of j-dramas frequently emerges as a bearer of chaos and movement.

In Learning to Love, thirty-five-year-old Manami, fragile and with a past suicide attempt behind her, resists the residual practice of omiai, or arranged marriage, imposed by her authoritarian father, and discovers herself through a relationship with a social outcast: a “nightlife entertainment worker” who unleashes in her a deep and unfamiliar passion. Fumino Kimura lends Manami a suffering yet delicate presence; the talented actress (already known for her work with Fukada) transforms the cliché of the repressed teacher into a modern, fragile, and emblematic figure, a lucid analyst of her own emotions. The series stands out not only for the direction of veteran Hiroshi Nishitani, who scatters the episodes with classical references ranging from Shimizu to Ozu, but also for the writing of the gifted Yumiko Inoue, striking from the very opening line in which Manami declares: “To my shame, I am still alive.”

Stereotypes and reversals

“How many ways can I live my life?” the protagonists of j-dramas seem to ask themselves, troubled by unresolved feelings yet also frustrated by pre-established conventions and hierarchies.

The woman as agent of conflict finds one of her most compelling representations in the opening credits of Asura, where the actresses, staring directly into the camera, throw a punch: a playful slow-motion “boxing ballet,” a metaphor for entropic impulses as powerful as a close-range hook.

Wives, mothers, rebellious girls; women who drink, smoke, and make love as a subversive, even political act. In Cinderella Closet, young Haruka naturally embraces her attraction to Hikaru, a gender-fluid boy whose appearance shifts between feminine and masculine. Adapted from a manga, the series is a luminous invitation to accept a mutable self with undefined contours, imagining a society in which no human being must sacrifice their identity to the prison of a role. Produced by TBS, Cinderella Closet approaches the subject with great lightness, blending comedy of misunderstandings with a coming-of-age narrative. Sexual and emotional desire is rendered in an oneiric, stylized manner, with reversals of classical iconography. In the penultimate episode, Haruka bends over Hikaru, caressing his face with a protective gesture: an image frequently found in romantic dramas, here re-enacted with reversed roles, offering a reflection that is not only metatelevisual but also an implicit critique of a culturally imposed imaginary.

The women of j-dramas overturn their lives in the light of desire and are unafraid to approach and touch the contours of their own inscrutable eroticism, revealing a stubborn craving for freedom. If, as Aya states in Tokyo Girl, society confines female existence within a five-meter radius—“Find a job, marry a good man, live a lukewarm marriage”—with all the humiliations and compromises that the marital contract entails, it is precisely the abundant production of j-dramas that exposes the crises of an exhausted and stifling model while simultaneously asserting new currents of desire.

The most compelling work of j-dramas lies precisely in their initial reassertion of the stereotype, only to subvert it later. The protagonists of Learning to Love, Love and Fortune, My Husband Won’t Fit, and Two Husbands, One Wife initially collude with a sexist mentality internalized over generations, striving to honor the traditional model that demands they be industrious wives and productive components of the social structure; yet life pushes them toward the unease of a margin—emotional and erotic—where they can finally find themselves.

Metonymies: falling

One of the most frequent television tropes is the heroine’s “fall”: traditionally, the girl falls and is caught by a passing Prince Charming, whose virile intervention prevents her from being hurt. Not infrequently, the fall leads to an accidental “kiss” between the protagonists. In recent years, however, Japanese series have offered significant variations—playful fragments of a new discourse on love.

In Learning to Love, Manami falls, but she is not rescued by the young and brisk Kaoru, an entertainer working in a host bar. This reversal of the archetype imagines a love lived not in the shadow of male protection (with its corollary of submission), but through an encounter with destabilizing, non-conforming emotions sparked by a much younger partner from a nocturnal and “immoral” world.

In Love and Fortune, the story of the love between the adult Wako and sixteen-year-old Iko, there is no fall but forgetfulness: the chance encounter unfolds under the sign of “forgetting” and regression. Wako is “ageless,” carrying her being into a suspended dimension where neither time nor morality exists (after all, Agnès Varda had explored a similar path with the beautiful Kung-Fu Master, 1988). Actress Eri Tokunaga is particularly effective in embodying the protagonist, expressing a sincere innocence that becomes awkward gesture and a gaze of infinite purity. Tokunaga’s presence miraculously rescues the drama from potential morbidity, while Yoshihiro Mori’s oneiric and transfiguring direction projects love into a world of natural sensuality, making it part of the rustle of things and the evening’s breath—something intact and blameless. The series also unfolds within an explicitly cinephilic context—Wako works in a mini-theatre—which, in accordance with surrealist principles, establishes the primacy of the innocence of the dream.

A model in crisis: traditional marriage

A different perspective, grounded in everyday life and detached from romantic imaginaries, emerges instead in My Husband Don’t Fit by Yuki Tanada, one of the most accomplished storytellers of free and self-determined characters, particularly skilled at combining phenomenological observation with introspective exploration. The relationship between the protagonist Kumiko and her husband Kenichi is measured and platonic: they share meals, expenses, and everyday concerns. A lukewarm, contractual marriage, already the object of sharp critique in Tanada’s own Tokyo Girl.

My Husband Won’t Fit develops an extraordinarily powerful narrative metaphor: the couple cannot make love; penetration is impossible; the penis “won’t fit,” it cannot enter. Shy and silent, Kumiko is nonetheless resistant to resignation and, unbeknownst to her husband, embarks on a sexual pilgrimage and erotic initiation through encounters with strangers—sometimes brutal or crude—that provide the fulfillment she needs.

Two Husbands, One Wife also exposes the crisis of the marital model through Mia’s conscious choice to claim the freedom of a polyamorous relationship. The traditional family unit proves unsatisfactory, and Mia, with her husband’s complicity, opens herself to the missing link by proposing an ex as a “completion.” A design for living with a Lubitschian flavor, dreaming of the overcoming of social stigma and opening onto an uncertain yet adventurous future.

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Nubi Fluttuanti è un progetto di Marcella Leonardi dedicato al cinema giapponese classico e contemporaneo.
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