Kiyoshi Kurosawa è un regista che non finisce mai di sorprendermi. Sebbene la critica internazionale lo conosca soprattutto per il suo personale e raffinato contributo al j-horror, il cinema di Kurosawa è molto più ricco, sfumato e dai confini indefiniti. La sua curiosità di artista, la sensibilità percettiva spingono il suo cinema oltre qualsiasi limite, in un territorio vasto dove i personaggi perdono le proprie coordinate per ritrovarsi in un vuoto che è al contempo destabilizzante e infinitamente vivo.
To the Ends of Earth (2019) è un suo ennesimo film “di viaggio” (penso al meraviglioso Journey to the shore, 2015) e l’abilità di Kurosawa nel condurre la propria protagonista in un “oltre” estraneo, spaziale ed emotivo, è tale da coinvolgere le nostre emozioni più profonde.
Yoko (Atsuko Maeda, perfetta e mutevole interprete di quel “cinema della destabilizzazione” proprio di Kurosawa) è una reporter in Uzbekistan; la ragazza vaga tra la folla e il regista la segue con piani sequenza (macchina a mano) inquieti e frementi; l’io si scontra con volti sconosciuti, gli sguardi si posano su di lei, sulla sua diversità. Un senso di angoscia ci pervade, ma soprattutto avvertiamo tutta la solitudine della ragazza, di cui Kurosawa non svela i pensieri più intimi, lasciandoli in una zona d’ombra. Il racconto di Kurosawa è molteplice, investe tutte le figure umane all’interno dell’inquadratura, talvolta concentrando sullo sfondo le azioni più significative attraverso una meticolosa profondità di campo, esaltata dall’uso magnifico del colore e delle prospettive.
To the Ends of Earth è un film a sua volta “in viaggio”, in movimento da un genere all’altro, da atmosfere ludiche a pause esistenzialiste, da momenti intimi a squarci orrorifici. Si veda la scena del piccolo luna park: la piccola, sgangherata attrazione sulla quale Yoko è costretta a salire diventa, attraverso lo sguardo di Kurosawa (che ricorre anche a cambi di formato), un implacabile meccanismo d’orrore.
Ma la sorpresa più bella è la deriva musicale del viaggio di Yoko: che dopo aver rischiato la vita, attraversato laghi, scalato montagne e liberato una dolce capra bianca (simbolo del suo spirito selvaggio), si sofferma a intonare una meravigliosa canzone di Édith Piaf tra i monti, l’Inno all’amore. Ed è in scene come questa che affiora, con tutta la sua luce, la poesia profonda e spirituale del cinema di Kurosawa, così legato all’umano e all’invisibile irrazionale che lo abita.



























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