VISITORS: COMPLETE EDITION (2023), Kenichi Ugana

Nel panorama delle produzioni nipponiche contemporanee non mancano i registi desiderosi di sfuggire alle maglie di un repertorio convenzionale a favore di un cinema di genere anarchico e vitale. Tra questi vi è Kenichi Ugana, mosso da un principio di piacere ludico e surrealista: il suo Visitors: Complete Edition (2023) è un manifesto di bizzarria nansensu e una dichiarazione d’amore al glorioso horror del passato; ma è anche un’opera multiforme e visionaria che non si esaurisce nella nostalgia compulsiva e nell’ossessione per il repertorio citazionista.
La poetica autentica e personale di Visitors assimila atmosfere e oggetti-emblemi classici (la “casa” isolata e periferica; la trasformazione del familiare in demoniaco; le motoseghe innestate sul corpo; il sangue e i liquidi corporei) e li restituisce in un contesto contemporaneo in cui sembra non esserci più spazio per il freak e l’estraneo. Ugana prova un affetto sincero nei confronti del “mostro”, confinato e incompreso, quasi un personaggio beckettiano in attesa di un destino.

Il film si divide in tre atti, separati da didascalie e stilisticamente differenti, che vanno a comporre un’opera “ipertestuale” evocativa di diversi modi di fare cinema. Il primo episodio ci conduce nel territorio di Evil Dead (1981) che Ugana ibrida in modo sfrenato con il manga alla Junji Itō e la stilizzazione performativa del kabuki. Il gusto degli effetti artigianali, il sangue finto e il prostetico, la cura del sonoro e l’alterazione della voce dei demoni rimandano ai parossismi di Raimi, ma il regista conserva un’attenzione nei confronti dello spirito tipicamente giapponese: si veda il “tocco” umoristico del personaggio hikikomori, che continua imperturbabile a leggere fumetti mentre intorno a lui si scatena l’inferno.

Nel secondo episodio (“Tre mesi dopo”) Ugana si addentra nel territorio del noir misterioso(alla Siodmack) presentandoci due personaggi legati ai lati opposti di in un bar. Con pochi movimenti di macchina e uno spazio sfruttato nella sua valenza aliena e claustrofobica, il segmento mette a confronto il familiare e il perturbante, l’umano e l’ibrido. Ai ritmi veloci e segmentati della prima parte sembra subentrare una pausa dialogico/esistenzialista, ma il gusto del bizzarro interviene a sovvertire la linearità dei codici messi in scena. È evidente come nell’immaginario di Ugana le suggestioni si affastellino, generando deviazioni radicali dal materiale di partenza. Il regista è “pieno di cinema” e le sue immagini finiscono con l’eccedere e traboccare di materiali estranei: qui, tra le bottiglie del bar, compaiono inquietanti teste canterine, quasi degli yōkai che si fanno beffe del destino degli uomini.

Ma è probabilmente il terzo segmento (“Un anno dopo”) a offrire allo spettatore l’esperienza più singolare ed entusiasmante. L’incontro tra umani e mostri devia totalmente da qualsiasi cliché per assumere le forme (colte) del teatro dell’assurdo, ibridato col nonsense alla Roy Andersson. Questi mostri non sono poi molto diversi dai frastornati e pallidi personaggi di Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014). È nel freak, infantile e desideroso di amore, che Ugana va ricercando tracce di una nuova umanità calda, familiare. Piccoli episodi alla Tati, scherzi, campi lunghi sul mare – in una suggestione deragliata di nouvelle vague – sfociano nella solitudine finale del mostro, smarrito di fronte ai misteri dell’esistere. Il suo cammino si conclude ai piedi di un monolito kubrickiano, nell’estrema desertificazione del tutto.

Il regista non si prende mai sul serio e Visitors con grande energia ci conduce attraverso una personale “storia del cinema”, in un giardino di idee dove esplodono immagini di Lucio Fulci, Nobuhiko Obayashi, il demenziale di Zucker-Abrahams-Zuckers e persino un cameo di Lloyd Kaufman, fondatore della Troma. Ma resta, al termine della convulsa visione, una profonda tenerezza per l’innocenza dei suoi freaks.
Va sottolineata, infine, la bravura di Ugana nella direzione degli attori, così come l’abnegazione dei suoi interpreti-kamikaze, pronti ad assecondare e rendere credibili le trovate più stravaganti. In particolare la protagonista Shiho, con una voce mutuata dagli alieni di Mars Attacks (1996) di Tim Burton, riesce a strappare allo spettatore una commozione inaspettata. La sua cicatrice sul petto è anche una ferita interiore, di cui resta traccia nel suo sguardo stralunato.

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