Il film si apre con un dialogo tra due pescatori di paese in una bollente giornata estiva:
– “Cosa c’è stasera a teatro?”
– “Una compagnia Kabuki.”
– “Ma come? Non c’è lo spogliarello? Il mese scorso mi era piaciuta tanto quella ragazza con le mutandine rosa e il culo grosso…”
Segue, poco dopo, l’esibizione della compagnia Kabuki più scalcagnata che si possa immaginare, i cui interpreti, come scopriremo, sono avviluppati in una “vampata d’amore”: scenate, bugie, tragicomici drammi della gelosia. Un film irresistibile, tra colpi di scena, nostalgie e sentimenti giovanili. Tanta umanità è affrontata con una passione estetica ancor più minuziosa: Erbe Fluttuanti è difatti un vero e proprio manifesto estetico per Ozu, un film la cui forma si fa filosofia e sguardo sulle cose e sulle relazioni umane: “Il tema è malinconico, con la sensibilità di un’epoca passata. Sebbene l’ambientazione sia nel presente, evoca la purezza e lo spirito dell’antichità dell’era Meiji. (…) Questo film è diventato un esperimento su come dare vita a una storia vecchio stile in un ambiente moderno.”¹
Scritto da Ozu e Kōgo Noda, il film nasce nel 1958 come progetto per la Shōchiku; ma dopo una serie di contrattempi il film passa alla Daiei. Il passaggio è voluto da Ozu per onorare una promessa fatta a Kenji Mizoguchi, morto tre anni prima: la realizzazione di un film per la stessa casa cinematografica di cui Mizoguchi nei suoi ultimi anni fu direttore esecutivo. Allineandosi alla produzione brillante dello studio Daiei e con i suoi migliori attori a disposizione, il progetto si trasforma in remake di Storia di Erbe Fluttuanti (1934).
Secondo Donald Richie questa nuova versione ha personaggi “more prosaic”, più banali: a mio parere invece sono più liberi, violenti e impulsivi, molto veri e appassionanti.
La fotografia venne affidata a Kazuo Miyagawa, collaboratore fisso di Mizoguchi nel dopoguerra, da cui Ozu apprese varie tecniche sull’uso del colore e il grado di illuminazione di cui necessitava ogni tonalità per venire impressionata sulla pellicola. E’ un periodo di sfide e trasformazioni per Ozu, già alle prese con la diffusione del Cinemascope, che si rifiuta di usare. Il regista decide di contrastarne la supremazia apportando modifiche al suo stile: “c’erano più primi piani e i tagli diventavano più minuziosi. In effetti, i miei lavori recenti possono vantare il maggior numero di inquadrature nel cinema giapponese.” ²
Le prime inquadrature sono dedicate al paesaggio e esprimono, da sole, una summa dell’arte e del pensiero non solo di Ozu ma di tutto il ‘900: l’uso del colore, la disposizione degli elementi nell’inquadratura, gli stacchi di montaggio ci conducono a misterici parallelismi. La presenza metafisica del faro, della bottiglia e della nave, l’azzurro cristallino del cielo, la vastità del mare sono elementi tanto astratti e metafisici quanto reali, quotidiani e parte della vita semplice degli abitanti di questo villaggio di mare. Le Erbe Fluttuanti potrebbero essere i personaggi – sospinti dalle correnti esistenziali, creature umili dalle vicende appassionanti: “fluttuanti”, perchè vi è della Grazia persino nel più balordo e instabile di loro. Ozu ama a tal punto l’umanità del proprio film da dedicarvi la disciplina formale più rigorosa e da renderla parte di una bellezza quasi ineguagliata nel resto della sua produzione: i colori, le simmetrie, lo studio di vicoli, strade, piccoli negozi; gli sgargianti e magnifici kimono, i volti femminili come porcellane impalpabili, la funzione espressiva di ombre e chiaroscuri.
E’ un film corale, il cui microcosmo ancora una volta prevede che ogni elemento sia importante ai fini della narrazione, poiché ogni essere vivente ha una storia degna d’essere narrata.
Il protagonista Komajuro, direttore della piccola compagnia teatrale (il grande attore kabuki Nakamura Ganjirō II) è un uomo sgradevole persino a se stesso: il suo perpetuare in errori infantili ed egoistici, lo sfruttamento delle situazioni, le menzogne con cui affligge i suoi cari – dalla sua ex amante e al figlio Kiyoshi avuto con lei, alla sua attuale compagna Sumiko – ne fanno un anziano presuntuoso, borioso, non di rado violento. Allo stesso tempo però Komajuro possiede un’attitudine ludica nei confronti della vita, un atteggiamento di leggera incoscienza che inducono noi spettatori a perdonarlo, e gli altri personaggi a nutrire affetto e reverenza. Quello di Komajuro è un saper vivere – pur tra espedienti – che ne fa un centro magnetico e carismatico, attorno al quale gravitano tanto le sue donne quanto la sua troupe di attori.
I personaggi femminili, nella loro devozione, sono però ancora una volta il cuore del cinema di Ozu, la sua anima pulsante: ribelli, impulsive, colme d’amore. A Haruko Sugimura si deve un personaggio profondo e sfumato – quello dell’ex amante Oyoshi – di grande mistero per la sensibilità appena rivelata tramite sguardi e malinconie leggere; ma a trionfare è l’interpretazione della bellissima Machiko Kyō. Il volto della Kyō è una visione: corrucciata, pensosa, preoccupata di perdere il suo uomo; segnata da una vita difficile ma capace di aprirsi in sorrisi di gratitudine ed entusiasmo. L’attrice sa farci cadere nell’interiorità psicologica più profonda della sua Sumiko semplicemente con pochi gesti e sguardi. Il modo in cui accende una sigaretta a Komajuro, quel puro movimento ripetuto è rivelatore di una cura, un sentimento. Attrice estremamente versatile, corpo/metafora per Kurosawa in Rashomon e fantasma d’amore per Mizoguchi in I racconti della pallida luna d’agosto, in Erbe Fluttuanti la Kyō si trasforma da mito e archetipo in donna contemporanea che fuma, beve, interpreta ruoli maschili su palcoscenici poverissimi e litiga col suo amato fino a incassare da lui, senza troppo scomporsi, una serie di violenti ceffoni. Le umili origini di Sumiko non le consentono di portare rancore: con fierezza e orgoglio, Sumiko indossa la sua natura d’animale ferito che non vuole allontanarsi dal riparo familiare. Con il suo passato da prostituta, la donna non è dissimile da Shirley McLaine nel film Irma la Dolce, la quale affermava: “A chi piace fare il cane randagio? Devi appartenere a qualcuno, anche se ti dà una pedata ogni tanto.”
L’altra presenza femminile, la giovane Kayo (Ayako Wakao), è radiosa e dà vita, insieme a Kiyoshi, a una storia d’amore allo stesso tempo pura e passionale, pudica e insopprimibile. Il bacio tra i due giovani, nell’oscurità di un vicolo, tra silenzi e musiche lontane, è quanto di più romantico e sospeso – da indurre un trasalimento – Ozu abbia mai girato: una scena colma di tensione e di ombre, la cui bellezza per sottrazione raggiunge un equilibrio perfetto assieme ai pochi elementi narrativi che Ozu mette in gioco: i suoni, i gesti; pochi passi di lui verso di lei, brevi esitazioni, infine un bacio che scioglie ogni paura. Kayo cinge con la mano la spalla di Kiyoshi, un gesto che si ripeterà in ogni bacio che i giovani si scambieranno nel corso del film. Con quella mano, Ozu ci mostra il desiderio, l’abbandono, la libertà giovanile contro tutte le regole dei padri. Cadono petali di fiori: è la bellezza struggente dell’amore.







Note 1, 2: Yasujirō Ozu, Scritti sul cinema. A cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi.























Scrivi una risposta a Speciale Yasujirō Ozu: il maestro del cinema giapponese – Nubi Fluttuanti Cancella risposta