In ricordo di Miho Nakayama, scomparsa il 6 dicembre 2024
“Avevamo promesso di fare un pellegrinaggio insieme all’Otaru innevato nel 2025 – per festeggiare il 40° anniversario del tuo debutto e il 30° anniversario di “Love Letter”.
E all’improvviso questa notizia della tua improvvisa scomparsa.
Con così tante emozioni che mi turbinano dentro – frustrazione, profondo rimorso…
Non sono ancora in grado di dire parole formali per ricordarti…
Stasera, anche se solo in spirito, desidero essere al tuo fianco.” [post di Shunji Iwai]
È il 1995 quando Shunji Iwai, dopo aver lavorato in televisione come regista di fiction e di spot pubblicitari, debutta al cinema con il delicato Love Letter: un film che definisce il suo particolare stile – attento all’uso dello spazio, in cui l’essere umano appare ancora più fragile e impermanente – e una vocazione a una narrazione poetica, fatta di ellissi, di tempo interiore e non-lineare, espressione di una soggettività pensosa che si misura con il mistero del vivere.
Sono trascorsi due anni dalla morte del suo fidanzato Fuji, ma la giovane Hiroko non ha ancora superato il lutto e continua a soffrirne. Mentre è intenta a sfogliare l’annuario scolastico del ragazzo scopre il suo vecchio indirizzo e decide di inviargli una lettera d’amore. Alcuni giorni dopo riceve una risposta da una donna con il suo stesso nome…
Love Letter è la vicenda parallela di due giovani che vivono lo stesso amore da differenti prospettive; ma Iwai lascia un margine di incertezza nello spettatore, un indizio di qualcosa di magico, come se le due ragazze, Hiroko e Itsuki, fossero l’emanazione della medesima essenza spirituale; il film è la visione, forse, della complessità dell’essere umano, e delle anime opposte e complementari che si agitano in ciascuno di noi, rendendoci creature in perenne trasformazione. Il regista trova in Miho Nakayama l’interprete ideale, capace sia di incarnare la giovinezza tremula che di mettersi a confronto con la propria immagine allo specchio, un altro da sé allo stesso tempo estraneo e familiare.
Hiroko e Itsuki ci vengono presentate come figure femminili reali e concrete, ciascuna con una propria esistenza separata, distanti nello spazio e dalla spiccata sensibilità. Se Hiroko è vulnerabile e passiva, illuminata dalla Grazia dell’amore per il suo fidanzato deceduto e protesa con ogni mezzo ad un ricongiungimento spirituale con lui, Itsuki è invece pragmatica, volitiva e indipendente. Entrambe immerse in due regioni nevose, sono aliene l’una all’altra, mosse da opposti istinti sentimentali e apparentemente inconciliabili. Il miracolo leggero del film è l’abolizione del “muro” che si frappone tra loro, la possibilità del riconoscimento, la realtà che incontra il proprio riflesso in un ampio paesaggio bianco e irrazionale. Le due ragazze diventano un’unica “donna che visse due volte” attraverso l’esperienza del giovane Fuji; due differenti amori dal medesimo volto, che si rintracciano in un intimo, iniziatico colloquio.
Iwai è bravissimo nel tratteggiare la vicenda in paesaggi vasti e destabilizzanti, privi di colore, resi incorporei dal bianco della neve e inquadrati in campi lunghissimi che inghiottono le sofferenze umane. L’uso di un editing “emotivo” sovrappone le due vicende parallele, le fa incrociare e le confonde; lentamente le due ragazze non ci appaiono più così differenti, accomunate da una “pulsione di morte” che per Hiroko è il rifiuto del presente, per Itsuki il lento abbandono a una polmonite. Il vuoto amoroso acquista contorni irrazionali, ma le lettere costituiscono una spinta salvifica, la fede in un divenire di cui le giovani diventano protagoniste.
Il regista mette in scena il coraggio del vivere, le incertezze e le voragini dell’esistenza, così come la presenza di una forza invisibile che lega i destini. Miho Nakayama è meravigliosa nel disegnare due personaggi: la sua interpretazione ne modula i caratteri, le reazioni, persino una diversa luce che promana dal corpo. Hiroko è eterea e leggera come una piuma, Itsuki più androgina, dura, resistente agli urti della vita. In un momento bellissimo vediamo Itsuki, in bicicletta, girarsi improvvisamente quando sente chiamare il suo nome dal suo invisibile doppelganger; ed è come tuffarsi in una myse en abime che manda in frantumi le due dimensioni separate e crea un canale, uno squarcio tra due mondi.
Dopo il “contatto” Hiroko e Itsuki entrano in uno stato che è corrispondenza d’amorosi sensi, comunicazione incorporea. Hiroko si reca alla montagna dove Fujii è morto per gridare “Come stai?”, mentre il suo volto si riga di lacrime e forse, per la prima volta, acconsente di “liberare nell’aria” il ricordo del ragazzo. Contemporaneamente, Itsuki mormora “Come stai?” dal suo letto d’ospedale, guarendo dalla polmonite e dall’afasia affettiva in cui aveva imprigionato se stessa.
Il film si chiude con un’ultima lettera interrotta, e con un sentimento finalmente sciolto per entrambe. Lo schermo sembra vibrare di scie d’amore libere e incontenibili come un fiume in piena: Love Letter non “filma” semplicemente un sofferto racconto di formazione, ma cattura i segni vividi di un amore che cancella i limiti della nostra esperienza umana.


























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