ANZUKKO (1958), Mikio Naruse

Kiyoko, figlia di uno scrittore di successo, dopo aver rifiutato alcune proposte di matrimonio acconsente di sposare il giovane e apparentemente gentile Ryokichi. Tuttavia, nel corso del tempo, Ryokichi si rivela sempre più instabile e violento. Il fallimento delle sue ambizioni lo spinge all’alcolismo, mentre Kiyoko conduce una vita sempre più miserevole.

Uno degli elementi ricorrenti in Anzukko, film che sembra composto in forma poetica, con rime interne, ellissi, “stanze” stilistiche e tematiche su cui Naruse esercita variazioni e ripetizioni, è la “passeggiata in bicicletta”. Naruse la ripropone in momenti diversi, facendone una figura retorica espressiva dello stato d’animo di Kiyoko. Giovane, con una vocazione anticonformista alla libertà e una velata tristezza nei confronti di un futuro cui non può sfuggire, la ragazza ci ricorda Noriko di Tarda Primavera (Yasujirō Ozu, 1948). Inquadrata di spalle o frontalmente, mentre pedala assieme ai suoi pretendenti, Kiyoko è una “sorella spirituale” di Noriko e condivide con lei un destino. Entrambe le giovani vivono accanto alla figura paterna, nella pienezza di un amore intenso e ricambiato, non privo di sfumature edipiche; il giappone post bellico sembra offrire una fuggevole serenità, ma la società impone la sottomissione alla cellula matrimoniale quale unità essenziale per la stabilità del Paese.

Se Ozu concludeva il suo film con il matrimonio di Noriko – una cerimonia che non ci viene mostrata, lasciando ancor di più l’impressione di un ignoto che avvolge la figura della ragazza – Naruse invece sceglie di mostrarci la vita di Kiyoko dopo le nozze: il quotidiano terreno e problematico, la disillusione e il duro lavoro per mantenere le apparenze di fronte alla comunità, anche quando il marito Ryokichi si trasforma in un arrogante e pericoloso ubriacone. È difficile, per lo spettatore, accettare il susseguirsi di episodi che trascinano Kiyoko dalla vita protetta nell’alveo familiare a una vera “tempesta” esistenziale fatta di sopravvivenze, umiliazioni, strategie messe in atto per resistere giorno dopo giorno.

Dopo il matrimonio il film “perde” la libertà degli esterni e si chiude sempre più tra le anguste mura della vita familiare, assumendo i tratti di un dramma da camera fatto di episodi staccati, separati da profonde ellissi. Assorta e asciutta, la macchina da presa documenta la discesa di Kiyoko in un inferno quotidiano; lo stile di Naruse è discreto ed elegante, ma tra le simmetrie dell’appartamento cogliamo penombre, sfasature, prospettive decentrate. Ryokichi diviene sempre più irragionevole: incostante e superficiale, tenta la carriera nella letteratura nonostante il mediocre talento. Naruse ci mostra lo scorrere del tempo attraverso i mutamenti del corpo di Kiyoko: i capelli raccolti disordinatamente, i primi piani sulle scarpe consumate, gli abiti lisi e soprattutto il viso privo di luce. Assistiamo impotenti alle angherie che il marito, ormai alcolizzato e violento, infligge alla moglie; e allo stesso tempo non comprendiamo l’ostinazione di Kiyoko nell’accettare passivamente il proprio calvario.

Per lo spettatore l’esperienza è frustrante, ma Naruse è un regista sottile, che nell’affrontare la psiche femminile rispetta i conflitti che si agitano nel cuore umano. Tensioni opposte lacerano Kiyoko, riflettendosi sul suo volto opaco e misterioso. Nel dopoguerra, in un momento in cui l’istituzione matrimoniale è ancora ritenuta fondante dell’intero sistema, la giovane avverte su di sé il peso di una responsabilità nei confronti della collettività e della propria famiglia. Il suo stesso padre, Hirayama, da lei amatissimo, non riesce ad offrire una prospettiva che si discosti da una visione di “persistente accettazione del destino”. Quella che al pubblico appare come una passiva remissività, è probabilmente una fase di elaborazione nella coscienza sia di Kiyoko che collettiva: il cammino per l’emancipazione femminile è ancora lungo, e Kiyoko non è che una delle tante anime in lotta, attraverso un “movimento” intimo e privato che non ha ancora trovato la propria meta.

Kiyoko è irrisolta, e Naruse si accosta a lei privo di giudizio, mantenendo una distanza di cui lo spettatore più sensibile coglie il fremito e la sofferenza. Un segno vivo della ricchezza emotiva del film è la colonna sonora, composta di brani al pianoforte: tra le note di Chopin o Debussy percepiamo il suono dell’anima di Kiyoko, la sua intensità drammatica, la corrente emotiva che la trascina e poi si scioglie in un movimento più triste, delicato.

Ryokichi la offende, la schiaffeggia, arriva a distruggere l’amato giardino paterno come gesto definitivo e vile contro quella bellezza e gentilezza di cui non è capace. Secondo alcune fonti il personaggio di Ryokichi ha origine autobiografica: il regista, notoriamente schivo e riservato, avrebbe dichiarato di essersi ispirato al rabbioso e alcolizzato dei difficili anni giovanili. Questa confessione spiegherebbe anche come mai, nella sua filmografia, bar e clubs siano elementi ricorrenti e la sensazione di “ubriachezza” venga visivamente rappresentata con soluzioni formali di grande originalità (si pensi al “dondolamento” della protagonista di Scattered Clouds o alla macchina da presa vertiginosamente inclinata e “in stato di ebbrezza” in Hit and Run).

Anzukko forse non è un’opera in cui gli elementi narrativi e la forma stilistica trovano un perfetto equilibrio, ma resta una testimonianza feconda della capacità di Naruse di guardare alle contraddizioni del vivere con uno sguardo attento e sensibile. Solo un anno prima il suo Untamed (1957) ci aveva regalato un’eroina volitiva e moderna, ribelle alle pressioni sociali e capace di colpire (anche fisicamente) chiunque abusasse di lei; Anzukko è il ritorno del dubbio, delle difficoltà, di un personaggio più fragile e incerto; forte ma non abbastanza, colmo di luce ma pronto a scivolare nell’ombra in nome di un interiorizzato tradizionalismo. Con la sua interpretazione leggera e sfumata, lontana da eccessi melodrammatici, Kyōko Kagawa è l’incarnazione ideale di questa figura femminile “di transizione”, martire silenziosa di un sistema che la obbliga a rinunciare a se stessa.

2 risposte a “ANZUKKO (1958), Mikio Naruse”

  1. Avatar TSURUHACHI AND TSURUJIRO (Tsuruhachi Tsurujirō, 1938), Mikio Naruse – Nubi Fluttuanti

    […] sul tono dell’opera e sulla raffigurazione di Jirō. In un successivo film autobiografico, Anzukko (1958), Naruse riproporrà uno spiacevole ritratto di sé e in generale dell’inaffidabilità […]

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