CHIME (2024) e la poetica di Kiyoshi Kurosawa

L’occidente si sta finalmente accorgendo di Kiyoshi Kurosawa, che da quasi quarant’anni ritrae, con una nitidezza affilata e inquietante, lo stato d’animo contemporaneo in una realtà indecifrabile. Città livide, edifici diroccati e cantieri, luoghi fatiscenti seclusi tra l’erba alta e la vigile contemplazione degli alberi; ma anche appartamenti severi e ordinati, esistenze alla deriva tra simulacri di normalità. Nelle inquadrature di Kurosawa si avverte una dimensione ulteriore, sovrapposta alla percezione immediata del quotidiano: una stanza vuota accoglie, nella sua scabra e simmetrica nudità, una presenza fantasmatica; una soggettiva attraverso una porta è il segno di un osservatore altro; il vento che scuote le tende è un presagio nefasto, il richiamo brutale a una condizione dell’essere regolata da leggi irrazionali.
I protagonisti del suo cinema si muovono in una costante “imitation of life”, quasi una riproduzione automatica di gesti e situazioni: gli impiegati nel luogo di lavoro, le mogli nella malinconia di un interno familiare. Volti inespressivi celano una condizione di costante alienazione, talmente radicata da non recare più traccia di memoria; un furore raffreddato, alieno. Talvolta, come in Séance o Retribution, ai fantasmi è affidata una memoria di umanità, uno stupore attonito di cui gli umani non sembrano più essere capaci.

Nel breve spazio di 45 minuti, Chime raffigura in forme cristalline e cariche di turbamento la condizione umana presente. Sotto un cielo plumbeo, in un edificio grigio-metallo, lo chef Matsuoka impartisce lezioni di cucina a un piccolo gruppo di giovani studenti. L’incipit è una “discesa agli inferi”, con la macchina da presa che inquadra un groviglio di tubi e grondaie fino a scendere nell’aula, ordinata e simmetrica, dove si svolge la lezione.
È importante, per Kurosawa, che gli spazi siano sempre perfettamente geometrici, sezionati in prospettiva con un punto di fuga centrale: il tentativo di disciplinare, tramite la forma, un irrazionale pervasivo che obbliga al movimento e “mette in crisi” la centralità del personaggio.

A sovvertire la quiete interna all’inquadratura, in Chime, interviene anche la luce: la monotonia è interrotta da lampi – (prodotti dal passaggio del treno) – che appaiono e scompaiono, creando l’illusione di un’altra realtà contrastata e chiaroscurale. L’utilizzo di specchi riflettenti e l’accentuata profondità di campo liberano l’immagine da qualsiasi univocità e moltiplicano la presenza del doppio e dell’ombra: non solo avvertiamo il peso, denso e fantasmatico, di uno sguardo invisibile, ma gli stessi personaggi subiscono una scissione identitaria. Matsuoka si osserva spesso allo specchio, e nell’atto di guardarsi si realizza un passaggio da una coscienza all’altra.

La follia si insinua attraverso un suono – chime, un rintocco melodioso – che genera una mutazione in chi lo ascolta: un ordine sonoro, la nota di un risveglio demoniaco che impone di uccidere. Improvvisamente la ripetitività, conforme e ottudente, non è più possibile: la morte squarcia le pareti, la natura umana affiora in tutta la sua violenza attraverso un doppelgänger che si impadronisce del sé passivo e reclama un’anarchica vendetta.
Il tema del doppio da sempre è il cuore della poetica di Kurosawa, e si rispecchia anche nella scelta dei corpi attoriali ( Kōji Yakusho in Cure o Seance, Mutsuo Yoshioka in Chime), apparentemente anonimi, ma capaci di erompere in impulsi pulsionali e feroci; un “risveglio” brutale in una realtà che non appare mai liberatoria, ma costringe a inseguire/fuggire da se stessi.

Matsuoka invoca la liberazione, urla; talvolta si placa e si rifugia in una finzione di vita familiare, ma il sorriso innaturale del figlio e la frustrazione della moglie – impegnata ogni giorno a smaltire enormi sacchi di lattine – ci precipitano in un universo surreale e bunueliano. Nell’incrocio di strade vuote, palazzi di cemento, ponti ripresi in campo lunghissimo, si staglia la figura di Matsuoka come un enigma. L’assenza di un controcampo risolutivo, o il mistero di una porta chiusa, sembrano non avere più nessuna importanza di fronte al vento che agita dolcemente i rami di un albero: “Mondo di sofferenza – eppure i ciliegi sono in fiore” (Kobayashi Issa, 1763-1828).

3 risposte a “CHIME (2024) e la poetica di Kiyoshi Kurosawa”

  1. Avatar CLOUD (Kuraudo, 2024), Kiyoshi Kurosawa – Nubi Fluttuanti

    […] [Articolo collegato: CHIME (2024) e la poetica di Kiyoshi Kurosawa] […]

    "Mi piace"

  2. Avatar Speciale Kiyoshi Kurosawa: un maestro contemporaneo – Nubi Fluttuanti

    […] CHIME (2024) e la poetica di Kiyoshi Kurosawa […]

    "Mi piace"

  3. Avatar PAURE E FANTASMI GIAPPONESI PER LA NOTTE DI HALLOWEEN – Nubi Fluttuanti

    […] CHIME (2024) e la poetica di Kiyoshi KurosawaLa discesa agli inferi dello chef Matsuoka, che impartisce lezioni di cucina a un piccolo gruppo di giovani studenti. […]

    "Mi piace"

Scrivi una risposta a PAURE E FANTASMI GIAPPONESI PER LA NOTTE DI HALLOWEEN – Nubi Fluttuanti Cancella risposta

Nubi Fluttuanti è un progetto di Marcella Leonardi dedicato al cinema giapponese classico e contemporaneo.
Nubi Fluttuanti is a project by Marcella Leonardi dedicated to classic and contemporary Japanese cinema.