Tokyo. Un impiegato si trasferisce con la famiglia nella periferia della città. Quando i figli scoprono che il padre è costretto ad umiliarsi con il capo per mantenere l’impiego, decidono di fare uno sciopero della fame.
Ozu si muove tra le pianure industriali che torneranno in Una locanda di Tokyo (1935) e ne fa il paesaggio surreale e metafisico di giochi infantili. Questo stupendo contrasto tra l’energia infantile, portatrice di meraviglia concreta e turbolenta fisicità, e il contesto grigio, astratto e desertico della periferia appartiene allo specifico del suo cinema: una compresenza di opposti, di vita e non/vita, di prigionia industriale contrapposta alla naturale libertà infantile. Sono nato, ma… segna inoltre la fine definitiva dell’uso di dissolvenze: da questo film in poi il regista si serve esclusivamente di stacchi, definendo in modo netto il proprio stile: “Le dissolvenze in apertura, in chiusura o incrociate non sono elementi di una grammatica del cinema, ma caratteristiche tecniche della cinepresa”.
Forse il suo più bel film “di bambini”, Sono nato, ma… osserva la vita attraverso i loro occhi. La regia di Ozu non solo ci permette di aderire al loro sentire, ma ne ricostruisce il microcosmo, dotato di regole, gerarchie e appartenenza a gruppi sociali. A ogni perimetrazione spaziale corrisponde una percezione infantile e l’organizzazione di dinamiche: la pianura è un regno dove gruppi sociali si scontrano, la scuola è il primo ingresso nella sottomissione societaria, cui seguirà la vita impiegatizia. Di rado il cinema ha trattato i bambini con tanta serietà, osservandoli nella loro complessità di esseri umani e non come spalla comica o drammatica degli adulti. Per vederli nuovamente in modo cosi bello e vero, in tutta la loro realtà e non come semplici funzioni di una narrazione “adulta”, bisognerà aspettare diversi anni: il Neorealismo prima e la Nouvelle Vague poi.
In Sono nato, ma… I due piccoli protagonisti – Hideo Sugawara e il sempre stupefacente Tomio Aoki (conosciuto anche come Tokkan Kozō, un monello incontenibile) – coltivano il “mito” del padre (Tatsuo Saitō), ai loro occhi “un grand’uomo” molto severo con i figli e rispettato dai suoi simili. Scopriranno invece le umiliazioni cui il proprio capo lo sottopone e reagiranno con rabbia e indignazione al suo atteggiamento passivo e rassegnato.
Ozu orchestra questa rivelazione, da cui consegue un vero e proprio rovesciamento della visione del mondo per i due bambini, mediante un brillante colpo di scena emotivo: il cinema nel cinema, il filmino casalingo in 16 mm. che tradisce una nuova, diversa immagine del padre. Saltimbanco per il capo, buffone senza dignità: l’immagine è spietata nel suo disvelamento. Ozu accentua lo shock della “caduta della figura paterna” inquadrando Saitō in primo piano, il volto deformato dalle smorfie. Il formalismo di Ozu coglie non solo la vita nel suo farsi ma anche il puro sentimento di disillusione che ne deriva.

Le immagini catturano le prese di coscienza, i sentimenti. Lo spazio, asciutto e innocente, accoglie i personaggi e i loro mutamenti. Con la sua messa in scena meticolosa, i sottili rimandi interstestuali, il rigore della composizione, Sono nato ma… non solo è in anticipo sul proprio tempo ma sa affrontare la materia con una sensibilità miracolosa, scegliendo di descrivere attraverso l’innocenza infantile il servilismo e la vita dura di un sararīman che sta facendo del suo meglio per la sua famiglia nella recessione del periodo.
I sobborghi di Tokyo, punteggiati di baracche e attraversati da treni sbuffanti, non sono mai stati così vivi. Percorre il film una leggerezza chapliniana, musicale; si vedano le numerose sequenze in cui i personaggi si muovono all’unisono per esprimere un’affinità elettiva. Queste rime visive diventano ancora più belle e delicate nella “corporea illustrazione” offerta dai bambini. Non a caso, il titolo originale del film è Un libro illustrato per adulti.
Sono nato, ma… viene accolto con grande attenzione dalla critica ed è il primo dei sei film di Ozu a vincere il Kinema Junpō Award per il miglior film dell’anno. Nel 1959, Ozu stesso girerà un remake molto libero del film, capolavoro di astrazione stilistica e ludica leggerezza: Buon giorno (Ohayō), il suo secondo film a colori.


























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