Sebbene attratta dal cugino Ryosuke, la giovane Hiroko accetta con leggerezza un matrimonio combinato: il futuro marito Shinichi sembra una persona per bene, e la sua famiglia è agiata. Dopo il matrimonio la ragazza lascia il lavoro e si stabilisce a casa dei genitori del marito; ma tutta la famiglia la tratta come una serva. La situazione si fa sempre più intollerabile e Hiroko decide di scegliere per se stessa un diverso destino.
A woman’s sorrow è un’opera affascinante anche in virtù della sua natura “imperfetta”: ci troviamo davanti a un film che reca le tracce di un cambiamento in atto, e ci rende percepibile la riflessione di Naruse sia sul mezzo-cinema che sulla società del tempo.
Interpretato da Takako Irie, una delle interpreti più sottili ed enigmatiche del periodo, il film si apre su una Tokyo moderna, in cui automobili e passanti, fili elettrici stagliati sul paesaggio urbano, negozi e attività vanno a comporre un quadro segmentato e in movimento.
Hiroko, giovane donna divisa tra il passato e un mondo in trasformazione, indossa abiti tradizionali sebbene lavori come commessa in un quartiere vivace. La ragazza sta per accettare un matrimonio combinato, poiché secondo la tradizione dell’omiai non può opporsi alle scelte di sua madre. Eppure, in questa passiva accettazione di un destino già scritto (“se non posso sposare l’uomo che amo, qualsiasi persona andrà bene”) nasce il germe del dubbio. Vediamo in numerose sequenze il volto ravvicinato di Hiroko pensosa e inquieta: un’immagine che si ripeterà spesso nella filmografia di Naruse, in cui il viso femminile viene colto nella sua intensità mutevole, come un cielo improvvisamente rannuvolato.
Hiroko è segretamente innamorata del cugino Ryosuke: un carrello li riprende mentre incedono insieme durante uno dei loro incontri, e riconosciamo un altro stilema del regista, le classiche “passeggiate dell’amore negato” tra coppie impossibili: si pensi a Hideko Takamine e Toshiro Mifune in A wife’s heart, o Yōko Tsukasa e Yūzō Kayama in Scattered Clouds. Queste conversazioni apparentemente casuali sono momenti al contempo quieti e struggenti, in cui gli innamorati si rivelano mediante un linguaggio non verbale fatto di gesti, sguardi, parole trattenute sulle labbra. Se la società li separa e li costringe a rapporti formali, il corpo ne mette a nudo sentimenti ed emozioni, che Naruse cattura nella loro fuggevole, naturale manifestazione.
Nonostante i consigli di Ryosuke, che invita a considerare in modo più avveduto una scelta importante come il matrimonio, la ragazza persiste nel suo atteggiamento conservatore e sposa l’uomo prescelto dalla famiglia, il benestante e frivolo Shinichi Horie. Naruse ci mostra questo matrimonio “sbagliato” attraverso una bellissima metafora visiva: quella dell’immagine rovesciata dei due sposi nello studio del fotografo, a simulare l’occhio dell’obiettivo. Con un passaggio rapidissimo, in cui è evidente quel montaggio invisibile lodato da Kurosawa, l’immagine diventa una foto-ricordo con annessa cartolina; in soli 18 secondi Naruse ha riassunto la banalità del rito nuziale e il destino di Hiroko, con una concisione e uno humor tali da avvicinarlo a un altro maestro del cinema dell’ellissi, Ernst Lubitsch.
Il momento più alto del film, che talvolta s’indebolisce per via della focalizzazione su personaggi minori, è sicuramente la parte centrale, in cui assistiamo alla vita quotidiana di Hiroko all’interno della famiglia del marito Shinichi. Il lavoro di Naruse sullo spazio è stupefacente: casa Horie, suddivisa in numerose camere, diventa un labirinto spaziale esplorato a 360 gradi; una dimora dalle innumerevoli aperture, stanze, corridoi, anfratti, divisi dalle tradizionali porte scorrevoli che non smettono di aprirsi. Da ogni angolo, le voci dei diversi membri della famiglia – padre, madre, le due sorelle e il fratello di Shinichi – chiamano il nome di Hiroko, il cui ruolo è a tutti gli effetti quello di una domestica. C’è chi vuole un tè, chi un massaggio, chi chiede aiuto con le incombenze quotidiane; e Naruse si serve del sonoro in modo avanguardistico per amplificare il senso di oppressione dell’ambiente, lasciando riecheggiare l’imperioso richiamo “Hiroko! Hiroko!” attraverso le pareti. Casa Horie è uno spazio postmoderno che disorienta, una prigione che priva Hiroko della sua identità e ne reclama il possesso; e questo smarrimento del sé accomuna la ragazza ad altre figure femminili annullate all’interno delle istituzioni familiari, quali la Michiyo di Meshi (Il pasto, 1951) o la Reiko di Midareru (Yearning, 1964). Non a caso la traduzione letterale di Midareru è “Confusa”, e più volte, nel corso di A woman’s sorrow, Hiroko viene descritta come confusa e indecisa da Ryosuke.
Naruse ci parla più volte dello stato d’animo di Hiroko interropendo il flusso narrativo con un volo d’uccelli nel cielo, simbolo di una tensione alla libertà che irrompe nel cuore della ragazza. Una libertà che, nel finale, sceglierà come proprio destino affrancandosi dalle aspettative sociali con un gesto di grande idealismo antiromantico. “Voglio ricostruire la mia vita da sola”, dichiara Hiroko a Ryosuke, che tenta maldestramente un avvicinamento; ma sappiamo quanto la ragazza sia indecisa, e Naruse stesso non appare troppo convinto dalla sua presa di coscienza. Come Hiroko, molte altre protagoniste dei decenni successivi si dibatteranno tra pressioni esterne (lo sguardo severo della comunità, i rigidi obblighi della tradizione) e il carcere conflittuale della propria mente, teatro di uno scontro tra pulsioni e una sottomissione culturale interiorizzata; ed è proprio in questo tormento che risiede la bellezza viva, attuale ed eroica delle donne del cinema di Naruse.
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