Molte delle protagoniste di Naruse sono vittime di prigioni esterne (il giudizio della famiglia; il tradizionalismo della società; lo sguardo severo della comunità in cui vivono) ma altrettanto opprimenti possono essere le prigioni interiori, che le bloccano in lunghi periodi di stasi. In realtà, l’immobilità afasica è teatro di un logorante conflitto interiore che talora sfocia in tragedia (la morte dell’amante in Yearning, 1964) altre volte in finali aperti (lo sguardo sull’orizzonte di Yumiko in Scattered Clouds, 1967) più di rado in conclusioni luminose di speranza (la passeggiata riconciliatoria madre-figlia in Lightning, 1952).
Un cinema “del quotidiano” come quello di Naruse non rinuncia però a un suo immaginario onirico, a momentanee fughe in spazi di deriva emotiva. Ricorrenti nel suo cinema come “luoghi dell’anima”, troviamo i bar e locali notturni: è nel dolce abbraccio dell’alcol che gli esseri umani riescono a confessare i propri intimi segreti, abbandonando pudori e la rigida formalità socialmente imposta. In un club si svolge una delle scene più romantiche dell’intera filmografia di Naruse, all’interno del dramma familiare Daughters, Wives and a Mother : nei panni di Sanae, vedova quarantenne, Setsuko Hara decide di chiudere con il suo giovane innamorato Shingo (Tatsuya Nakadai) proprio per via della differenza d’età. L’addio viene confessato durante un ballo malinconico. Le altre coppie in sala sono sagome scure immerse nell’ombra; le luci creano un’atmosfera fiabesca ma anche mestamente elegiaca. Stretta a Shingo, Sanae sussurra “mio marito non mi aveva mai portato a ballare”. I suoi occhi sono colmi di gratitudine per questo amore breve ma impossibile e lo spazio sembra cullarla dolcemente fino alla fine del sogno. Tutto danza – i corpi, la luce, i riflessi su muri e tendaggi; tutto pronuncia l’addio.

























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