TAG (Riaru Onigokko, 2015), Sion Sono

Mitsuko, una studentessa delle superiori, si ritrova coinvolta in una serie di scenari bizzarri e violenti. Mentre attraversa questa catena di esperienze surreali, la ragazza scopre la vera natura della sua realtà.

Dal 2021 Sion Sono non realizza più un film. Accusato di molestie sessuali, il regista è scomparso dal set ma anche dal web, relegato in un void che lo accomuna a tanti suoi protagonisti. Come spesso accade in queste situazioni, siamo consumati da interrogativi etici: ci si domanda se sia giusto continuare ad amare un regista che, secondo le accuse, è tra i responsabili della corruzione dell’industria cinematografica (una crisi denunciata dal movimento me too nipponico e da film come Blue Imagine), con esiti talora tragici. Mentre il “caso Sono” viene esaminato, possiamo solo (ri)vedere i suoi film e prendere atto delle innumerevoli e feconde antinomie che li animano; un caos di opposti stilistici e tematici, specchio della composita e turbata personalità dell’autore.

Tag (2015) è un chiaro emblema di queste contraddizioni: film di “genere” e allo stesso tempo pura opera autoriale; produzione minore, forse incidentale all’interno di una filmografia dai titoli rivoluzionari (come Suicide Club o Love Exposure), Tag ha le peculiarità del divertissement fumettistico e grottesco, ma possiede anche una sottesa commozione, un dolore insanabile nei confronti del destino umano, in particolare femminile. Sono sembra muoversi all’interno di quel perimetro di sofferenza, vasto e attonito, generato da una brutale distruzione delle illusioni. Pochi registi hanno saputo, come lui, catturare la “condizione dello spirito” adolescenziale, la crisi che riduce a grumo afasico e disperato.

La protagonista Mitsuko, esile e fragile studentessa, amante della solitudine e della poesia, si ritrova a vivere un incubo provocato da una forza maligna che uccide tutte le sue compagne: un “vento” demoniaco che ha le caratteristiche dell’ Evil Dead raimiano, scatenato in rapidissime e incontrollate soggettive. Il male si muove tra gli alberi e l’erba, libera piogge di petali in una danza orrorifica e taglia i corpi in due, macchiando il paesaggio di sangue.
Cogliamo il piacere erotico/malinconico del regista, il gusto estetizzante della violenza e la “perversione” artistica di una fantasia macabra inflitta alla bellezza. Il gore di Tag è eccitante, surreale e un trionfo di estetica del falso; le ascendenze culturali del cinema di Sono vanno dalla classicità all’ero guro, dal pop della pubblicità al potere evocativo e drammatico di una sinfonia.

In particolare, lo sguardo sulla protagonista è duplice e malato: se il regista indugia sui corpi di Mitsuko e delle compagne Aki e Sur, rivelando la sua tipica ossessione per l’intimo femminile e per una fisicità ancora acerba e in formazione (un feticismo antropogicamente giapponese) allo stesso tempo la pena che prova per Mitsuko è sincera. Il modo in cui circonda di “nulla” la ragazza, i primi piani sul volto svuotato da ogni espressione, sono i segni di una sensibilità profonda e turbata. Altrettanto decisa è la condanna di un universo maschile dominante e depravato, al quale senza mezze misura attribuisce l’aspetto di un “porco”.

Sotto molti aspetti, Tag può essere definito il suo personale Picnic a Hanging Rock. Il mistero dell’anima femminile, l’ignoto che spira dal paesaggio naturale (riscontrato in altri autori, ad esempio l’Hamaguchi di Evil does not exist), la metafora di un male invisibile pervadono il film, nelle forme originali e deragliate che appartengono al regista. Talora desolato, talora rutilante ed estremo, Tag è un film di deserti spirituali, ma anche di giochi tra ragazze, di poesia e speranza. L’amica Sur lascia a Mitsuko una lezione: “La vita è surreale; non lasciare che ciò ti inghiotta e ti consumi.” E c’è, nel cinema di Sono, una sincera elegia del potere femminile, un’ammirazione evidente per una protagonista delicatamente piegata di fronte alle intemperie, ma pronta a riprendere la sua corsa incessante. Del tutto privo di quella programmaticità che infesta il cinema contemporaneo, il femminismo di Tag è un altro tassello delle impenetrabili contraddizioni del regista.

Commedia horror e struggente racconto di formazione, Tag lascia allo spettatore autentici momenti di poesia e uno stile sfrenato in cui la gioia naturale della giovinezza ha i colori del bosco e la leggerezza di un volo sul paesaggio.
Il “gioco” cinefilo comprende sparatorie alla Peckinpah, con corpi trivellati al ralenti; piani sequenza labirintici e panning laterali che espandono i confini del visibile; visioni del doppio, smarrimenti sensoriali, scomposizioni spazio-temporali. È possibile riconoscere un’affinità con i temi cari a Satoshi Kon, come lo sdoppiamento dell’io e la presenza di molteplici piani del reale, e in generale con l’alienazione propria di tanta cinematografia giapponese, da Nobuhiko Obayashi a Takashi Miike. Il finale (liberatorio?) è un’esaltazione del potere del cinema e della finzione, ma resta il sapore amaro di una fuga – dall’irrazionalità del vivere – che non ha fine.

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