Fumiko e Ryōtarō sono sposati da tempo e vivono in stato di costante insofferenza, tra dispetti e rimproveri reciproci. L’arrivo di Ayako, nipote di Fumiko, accelera la crisi.
Non sono pochi i film che Mikio Naruse ha dedicato alla vita coniugale. Tra i titoli più noti ricordiamo Repast (Meshi, 1951), Wife (Tsuma, 1953), As a Wife, as a Woman (Tsuma toshite onna toshite, 1961), tutti caratterizzati dallo sguardo analitico e profondamente intelligente del regista. La sua visione dell’istituzione matrimoniale è estremamente moderna: ne carpisce le trappole, la prigionia, la sottesa ferocia; ma anche (come Bergman e Fassbinder) il senso di reciproca dipendenza che si innesca, in un’alternanza di dominazione/sottomissione tra i coniugi.
Film dalle emozioni impalpabili e sottilmente acuto, di una raffinatezza psicologica che lo accomuna ai migliori drammi di Mitchell Leisen, Sudden Rain osserva fin nei minimi dettagli la vita quotidiana di Fumiko (Setsuko Hara) e Ryōtarō (Shūji Sano). Va sottolineato come ancora una volta Naruse scelga Hara per il ruolo di moglie tormentata da sensazioni opposte, personaggio che l’attrice sa sviluppare in profondità. Secondo le parole di Ozu, Hara “ha una gamma espressiva ristretta, però è tagliata per certi ruoli” (1). In parte succube, in parte insofferente, la sua Fumiko (così come la Michiyo di Meshi) è opaca anche a se stessa. Consapevole di vivere un’esistenza irrisolta e ripetitiva, non riesce ad affrancarsene poiché attaccata al proprio status. Fumiko sorride e piega rispettosamente il capo, ma il modo in cui afferra gli aghi da maglia o si rifiuta di passare un piatto a Ryōtarō sono segni di cocente insoddisfazione e fanno parte di un “reticolo linguistico” che il marito ha imparato a interpretare.
Fumiko inoltre si trascura, “indossando” il suo scontento, e scruta con un misto di invidia e curiosità la giovane e irruente nipote Ayako. Gli unici momenti in cui si abbandona a un piacere spontaneo, rilassando anche la rigida postura (l’interpretazione di Hara è magnifica anche per queste sottigliezze), sono quelli in cui si prende cura di un cane randagio. Tra l’altro, proprio lo scompiglio creato dal cane (che spaventa i vicini e uccide galline), dà a Naruse la possibilità di spezzare il dramma con una “riunione di condominio” dai tempi comici perfetti.
Dal suo canto, Ryōtarō fa di tutto per innervosire la moglie, negandole l’uscita domenicale, trattandola con sufficienza e flirtando con la giovane vicina. Testardo e patriarcale, Ryōtarō si rifiuta di permettere a Fumiko di lavorare, sebbene la coppia sia costretta a una vita di ristrettezze economiche.
Naruse osserva, con sensibilità ed eleganza, la prigionia quotidiana di marito e moglie (messa in risalto da mascherini profilmici); ma ancor di più riesce ad evidenziare le piccole violenze psicologiche dell’uno e dell’altra, mostrandoci Ryōtarō che sovrasta Fumiko (mediante un uso espressivo della profondità di campo), poi replicando l’inquadratura a parti inverse.
Nonostante le battute feroci, affiora la fragilità dei due: la regia ci rende partecipi dello smarrimento di Fumiko di fronte alla prospettiva di una separazione, o delle insicurezze di Ryōtarō al pensiero che la moglie possa mantenerlo. Inoltre, i loro inconsci movimenti all’unisono, le coazioni a ripetere, i prevedibili dispetti sono parti di una contraddittoria interdipendenza.
Nella scena finale Naruse ci sorprende con un momento ludico: Fumiko e Ryōtarō iniziano a giocare con una palla di carta, noncuranti dei commenti dei vicini; ma in questo “gioco” stizzito, tra lanci nervosi e sguardi di sfida, cova la frustrazione della famiglia perbene che non può prendersi a randellate (come farà, l’anno successivo, la coppia più sanguigna Takamine-Katō in Untamed, Arakure,1957).






(1) Ozu, Scritti sul cinema, a cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi, p.199























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