Nubi Fluttuanti (Floating Clouds – Ukigumo, 1955), Mikio Naruse

Nei romanzi di Fumiko Ayashi, molto amati da Mikio Naruse che ne adatta ben sei per lo schermo, le protagoniste femminili sono il corpo della sofferenza e del cambiamento: su di loro ricadono non solo i sacrifici imposti da una tradizione rigida, ma anche la violenza della Storia. Come fiori nella pioggia, le donne della Ayashi non smettono di fiorire e appassire dolcemente, dopo una vita di aperto colloquio col cielo cui aspirano. Floating Clouds mette in scena, con tutto lo splendore di una Hideko Takamine luminosa e bellissima anche nel martirio, una di queste figure irriducibili: Yukiko, mossa da un infinito desiderio e pronta a farsi strada tra le macerie (così vere che Naruse ricorre a immagini documentarie nell’incipit).

Reimpatriata nel Giappone sconfitto e occupato, Yukiko insegue l’egoista e donnaiolo Tomioka, ex funzionario civile con il quale ha avuto una relazione in Indocina durante la guerra. Il film registra, con un’osservazione assorta e sofferta, la storia del loro rapporto passato e presente: un amore simile a un viaggio, un perpetuo girovagare senza meta di due nubi fluttuanti, senza scopo, fantasmi pallidi tra le rovine. Naruse li accompagna con gentilezza senza mai giudicarne l’impetuosa irrazionalità o le scelte autolesioniste: il regista guarda alla coppia così come allo smarrimento del paese nel caos postbellico.

Floating Clouds si distingue per uno stile originale e particolarissimo, che sembra anticipare la struttura ipnotica di Hiroshima Mon Amour (1959) di Alain Resnais. Il film procede attraverso canoni (nell’accezione musicale del termine) incantatori, in cui l’amore affiora come un mistero brutale, predestinazione alla sofferenza. Il trattamento che Naruse fa del tempo è di straordinaria modernità: lo scompone secondo modalità inconsce, sentimentali ed emotive; abbandona la linearità per restituire una percezione fatta di onirismo e soggettività. Il reale si interseca con i frammenti del pensiero di Yukiko e del suo discorso amoroso.

Quando, nelle prime scene, Yukiko appare dopo brani di cinegiornale del 1946, assistiamo a uno spostamento metonimico del discorso dalla Storia all’individuo. La ragazza, ormai priva di una vera identità e di uno spazio in cui riconoscersi, si aggrappa all’amore e alla sua idealizzazione: «per noi», dice Yukiko a Tomioka, «il passato è l’unica realtà». Flashback tralucenti di bellezza e calore ci riportano al loro primo incontro nel palazzo coloniale di Dalat: Tomioka, tenebroso e di poche parole, le lancia uno sguardo intenso e penetrante. Yukiko, innocente come i suoi abiti candidi e appena arrivata in Indocina per lavorare come tipografa, trasalisce: è l’inizio di un amore selvatico, in un percorso dalla luce all’agonia.

Le “visioni” di Dalat, esotiche e quasi febbricitanti, in cui la passione nascente satura ogni cosa – gli arabeschi di luce e ombra, l’eleganza barocca degli arredi, i boschi lussureggianti – irrompono nella durezza del presente avvolgendolo nella vertigine. Ecco allora che un bacio annulla il tempo: uno stacco di montaggio e il Tomioka del passato, in uniforme, bacia la Yukiko del presente. La maestria di Naruse consiste nell’intersecare senza cuciture visibili i piani temporali; ellissi, flashbacks, memorie sensoriali e proustiane inducono uno spaesamento che solo il cinema può dare.
La fotografia del collaboratore di lunga data di Naruse, Masao Tadai, mette in risalto il tessuto onirico e soggettivo del racconto, intensificando l’idilliaca radiosità di Dalat e il tetro grigiore di Tokyo. 

Il gioco tra i due amanti non ha fine e il desiderio sopravvive malato, errabondo. La morte, in particolare, sembra accompagnare Tomioka: il suo passaggio lascia una scia funebre di amanti, la sua mano uccide ciò che tocca. Eppure, Tomioka non è un predatore ma un personaggio complesso, moderno e novecentesco, vittima di un’opacità morale che Naruse colloca in spazi emblematici: appartamenti bui e costantemente provvisori, specchio del suo interiore istinto di fuga. Tomioka è inetto, tormentato e incapace di azione, ma allo stesso tempo limpidamente consapevole dei suoi fallimenti che non esita ad ammettere. Masayuki Mori lo interpreta magnificamente, incarnando la fondamentale inafferrabilità del personaggio. Tra propositi mancati, debolezze e sottili crudeltà, Tomioka inganna anche se stesso: le lacrime finali non testimoniano una catarsi, ma sono il segno di una paralisi che non trova soluzione.

Il paradosso della coppia – che incede in infinite passeggiate, tra non-luoghi anonimi, lungo ferrovie o tra baracche fantasmatiche – è la prigionia reciprocamente inflitta: nessuno dei due è libero, nemmeno l’apparentemente distaccato e infedele Tomioka. La malattia – pallida e sofferta – invade entrambi.
L’erotismo, verso il quale Naruse ha sempre nutrito un interesse profondo, qui si respira denso: sembra stringere dolcemente i personaggi e gli spettatori con le sue spire. Gli sguardi di Tomioka a Yukiko, ma anche alla giovane amante Sei, sono lampi elettrici: sguardi perversi. Come le due donne, anche lo spettatore si accorge di essere caduto in una rete sensuale quando è troppo tardi, quando ormai è completamente coinvolto. Se razionalmente è difficile accettare il comportamento dei protagonisti, lo schermo ne legittima gli impulsi ponendoci di fronte alla loro ineluttabilità. «Non si può combattere il destino.»

Il finale, tra le cose più belle di tutta la storia del cinema, sovverte i nostri pregiudizi, il bisogno dello spettatore di classificare personaggi e sentimenti, l’istinto a interpretare univocamente la realtà: Tomioka, curvo e disperato su una Yukiko che è ormai pura luce spirituale, tramuta la sua maschera inespressiva in dolore. Le sue lacrime sono così vere e insostenibili che Naruse sposta la macchina da presa alle sue spalle, rispettandolo, per poi chiudere su una triste epigrafe: «La vita di un fiore è così breve/eppure deve sopportare tanto dolore».

Breve riflessione: un autore come Hayao Miyazaki dissemina spesso le sue opere di riferimenti ai grandi classici. Evidenti, in particolare, le corrispondenze tra Floating Clouds e Si alza il vento (2013). Come in Naruse, il film di Miyazaki è velato da una tristezza profonda e senza speranza, che però non impedisce la percezione acuta della bellezza del mondo e la comunione dello spirito umano con i fenomeni naturali.

7 risposte a “Nubi Fluttuanti (Floating Clouds – Ukigumo, 1955), Mikio Naruse”

  1. Avatar YEARNING (Midareru, 1964), Mikio Naruse – Nubi Fluttuanti

    […] Reiko si fa cogliere dall’ennesimo dubbio. L’amore si fa freddo e “umido” (come già in Nubi Fluttuanti, 1955) e la coppia cammina tra pozzanghere stringendosi infreddolita nei cappotti. Koji reagisce […]

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  2. Avatar 100 anni di HIDEKO TAKAMINE – Nubi Fluttuanti

    […] FLOATING CLOUDS (1955), Naruse Mikio […]

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  3. Avatar SINCERITY (Magokoro, 1939), Mikio Naruse – Nubi Fluttuanti

    […] Naruse ricorre di rado alle “pose parallele” come strumento significante (un altro esempio è Nubi Fluttuanti, con i due amanti naturalmente inclini a condividere la stessa “lingua” non verbale); nel caso […]

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  4. Avatar SCATTERED CLOUDS – Nubi Fluttuanti

    […] gli amanti di Nubi Fluttuanti vagavano nel limbo di distruzione del dopoguerra, i protagonisti di Scattered Clouds assistono […]

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  5. Avatar PIOGGE IMPROVVISE: IL CINEMA DI MIKIO NARUSE – Nubi Fluttuanti

    […] temporale è soggettiva e viene attraversata, surrealisticamente, avanti e indietro (per esempio in Nubi Fluttuanti, 1955, o Morning Tree-Lined Street, 1936). Ciò imprime ai suoi film un carattere ipnotico e […]

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  6. Avatar MILLENNIUM ACTRESS (Sennen Joyū, 2001), Satoshi Kon – Nubi Fluttuanti

    […] una photocall giornalistica assieme a Godzilla (1954), cammina tra le macerie come Yukiko di Floating Clouds […]

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Nubi Fluttuanti è un progetto di Marcella Leonardi dedicato al cinema giapponese classico e contemporaneo.
Nubi Fluttuanti is a project by Marcella Leonardi dedicated to classic and contemporary Japanese cinema.