LIGHTNING (Inazuma, 1952), Mikio Naruse

La ventitreenne Kiyoko è la più giovane dei quattro figli che la madre ha avuto da quattro uomini diversi. Vittima della propria famiglia disfunzionale, che la vorrebbe sposata al volgare fornaio Tsunachiki, Kiyoko decide di andare a vivere da sola; ma non è facile liberarsi del tutto dalla dolorosa morsa dei legami familiari.

Quello tra Hideko Takamine, una delle attrici più talentuose e amate del Giappone, e il regista Mikio Naruse, il più fine osservatore della sensibilità femminile, fu un sodalizio unico, basato un sentire comune e un’idea di cinema “realista” intensificato dalla percezione soggettiva. Takamine diede vita a personaggi femminili sfaccettati, coraggiosi, prostrati dalla vita ma sempre illuminati da una scintilla di indipendenza e desiderio. Naruse, “regista capace di comprendere perfettamente la personalità femminile” (secondo le parole di Yoko Tsukasa), trovò in Takamine l’interprete cui affidare i mutamenti del tempo rispecchiandoli nel suo volto fremente. “Corpo” cinematografico luminoso e perturbato da rannuvolamenti improvvisi – tristezze che calavano sul suo sguardo come un’ombra – l’attrice divenne metafora del cinema del regista, che nei fenomeni naturali individuava un legame spirituale con la vita umana.

Con il suo tipico humor metacinematografico (il regista fu molto più ironico di quanto tanta critica voglia farci credere), Naruse si riallaccia a Hideko the bus conductor (1941), primo film girato con Takamine: Kiyoko si guadagna da vivere lavorando come guida su un bus turistico. Il regista dissemina la sua filmografia di segni di continuità, presenze, ritorni; in particolare, il suo rapporto con il tempo ha sempre una qualità onirica e non lineare. L’apparente immediatezza del suo cinema cela un disegno strutturale e un’attenzione estetica – compositiva e luministica – che rendono l’esperienza dei suoi film simile a sogni di straordinario nitore.

La sceneggiatura è adattata dal romanzo omonimo della scrittrice Fumiko Hayashi, molto amata da Naruse, nella cui prosa convivono rassegnazione e rivolta: un rapporto dialettico che si riflette nei turbolenti personaggi femminili.
Il film è tra i più belli mai realizzati sulla vita di una donna ed è talmente vivo e reale da far percepire allo spettatore il flusso di coscienza della protagonista. I “lampi” del titolo sono i profondi turbamenti che scuotono la ragazza di fronte al disfacimento morale della famiglia: le sorelle diventano amanti del laido Tsunachiki, il fratello bighellona in perenne stato di ubriachezza, la madre si trincera nella rassegnazione. È un film sensoriale e materico: le emozioni di Kiyoko diventano nostre senza filtri, se non quello invisibile della mano del regista, così delicata e rispettosa. 

Naruse ricorre a uno stile assorto e discreto, concentrato sino a cogliere ogni sfumatura e pronto a erompere in quella “tempesta emotiva” che il suo allievo Akira Kurosawa tanto ammirava. La ragazza ci appare sempre “fuori posto” all’interno dell’immagine: collocata ai suoi margini, oppure con lo sguardo rivolto ad un ideale fuori campo al di là della gabbia familiare (fig.1)

1. Sguardi in fuga

Gli interni della casa sono soffocanti e affollati: personaggi entrano ed escono di scena, con una perfetta orchestrazione spaziale. Naruse sfrutta la disposizione dell’appartamento in modo da “chiudere” la vita di Kiyoko tanto in senso orizzontale che verticale. Lo sguardo della ragazza, intensamente rivolto ad un altrove, diventa dunque una via di fuga, un’alternativa possibile. La bravura di Takamine e l’acuta sensibilità di Naruse regalano allo spettatore qualcosa di irripetibile, la materializzazione d’un desiderio, di una tensione verso la salvezza. Negli occhi di Kiyoko c’è il sogno di un futuro.

In altre scene la ragazza è ripresa di spalle, rivolta all’orizzonte: una scelta simbolica che Naruse realizza con gusto compositivo raffinato, esaltando la compostezza della postura di Kiyoko, profondamente immersa nei suoi pensieri (fig.2). Armonioso, immoto, il corpo di Kiyoko trascende il vile presente che la circonda. La fotografia di Mine Shigeyoshi esalta la stilizzazione dell’inquadratura conferendo alla figura umana un nitore quasi neoclassico; e sono questi momenti, in cui l’astrazione e lo stile irrompono nel realismo incrinandolo, a conferire al cinema di Naruse la sua specificità. Troppo sensibile e intelligente per fermarsi ad un banale realismo denotativo, il regista – come Fumiko Hayashi –  rivela tracce di infinità nel quotidiano.

2. Di spalle

La poesia si insinua nella vita della protagonista donandole uno sguardo nuovo e possibilità altre: l’episodio della nuova affittuaria che le mostra come costruire bambole kokeshi (“chiunque può farle”), così come l’esistenza pulita dei nuovi vicini di casa, amanti della musica e delle arti, affrancano Kiyoko dallo squallore del suo passato. Illuminata dal fulmine, imparerà ad amare la sua imperfetta, fragile madre (il confronto emotivo finale tra le due donne è tra i momenti più tesi e belli del cinema di Naruse).
Il film si chiude con una passeggiata riconciliatoria madre-figlia nella quiete notturna dopo la tempesta, e si ha la sensazione di aver assistito ad un miracolo: lo sbocciare di una giovinezza che trova il proprio fiore e si affaccia, con orgoglio, alla vita.

2 risposte a “LIGHTNING (Inazuma, 1952), Mikio Naruse”

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