SMALL, SLOW BUT STEADY (Keiko, me wo sumasete, 2022), Shō Miyake

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La pugile Keiko è nata con un deficit uditivo. La boxe è una vera passione e il suo club è come una famiglia, ma una serie di eventi negativi prende il sopravvento: il covid si diffonde, il suo allenatore si ammala e la palestra sta per chiudere definitivamente. Liberamente ispirato al romanzo autobiografico “Don’t Give Up” di Keiko Ogasawara.

Uno dei più bei film di Miyake, in equilibrio tra una molteplicità di sensazioni e ispirazioni, Small, slow but steady è l’opera di un filmmaker perfettamente calato nel retroterra culturale e artistico del suo paese, ma anche inquieto e desideroso di imporsi come presenza nuova e libera. Film “sportivo” anomalo e personale, tratto da una storia vera e trasformato in territorio di sperimentazioni, Small, slow but steady si concentra sulla riproduzione del microcosmo della pugile sorda Keiko (una meravigliosa Yukino Kishii) di cui altera la convenzionale convergenza di immagini e suono. La parola è quasi assente o ridotta a strumento per minimi raccordi narrativi; i rumori sono invece amplificati, particolarmente espressivi, utilizzati come colonna sonora ritmica e astratta. Spesso i suoni vengono svuotati di significanza per divenire segno, pulsazione ovattata (nel caso del rumore dei colpi durante gli allenamenti).

L’attenzione di Miyake nei confronti del sonoro e della sua valenza iperrealista ci permette di comprendere meglio Keiko, isolata rispetto ai codici comunicativi sonori – talvolta con grande frustrazione – ma creatrice, a sua volta, di una musica visiva. Questo aspetto è particolamente evidente durante i combattimenti, di cui Miyake mette in evidenza la valenza coreografica, ma anche nel quotidiano, nella ripetitività armonica dei gesti o nel ricorso a movimenti stilizzati.
Stagliata contro la notte e illuminata dai lampioni, musicale come una nota sola e persistente, Keiko possiede la malinconia di un Jean- Louis Barrault: opaca e impenetrabile, ma anche ineludibilmente triste e smarrita. Miyake si dimostra, come nei film precedenti, uno straordinario fotografo urbano, di cui coglie la silente alienazione in crepuscolari tableaux; e al loro interno pone Keiko, presenza umana che anela all’invisibilità, pronta a “svanire” tra le cose. L’attento studio del colore accentua questa mimesi verso l’invisibile.

Per molti aspetti Small, slow but steady è la storia di una sparizione: Miyake esprime il sentimento di una “fatiscenza” dell’essere, tipico del periodo del covid, quando l’umanità sembrava alle soglie del proprio tramonto, e lo trasferisce metonimicamente sull’esperienza di Keiko, sulla palestra degradata di quartiere e sulla fine di un mondo. Con un amore profondo nei confronti del cinema di Ozu, Miyake ci offre un accesso privilegiato all’animo in divenire della ragazza attraverso l’uso di immagini-sentimento (inquadrature di spazi vuoti, oggetti o paesaggi); così come frequente è il ricorso a dolcissime scene in cui Keiko e il suo anziano maestro si abbandonano a ludici momenti di affetto, tra movimenti all’unisono e una prossimità fisica che diviene anche condivisione di un unico sentire.

A queste scene si contrappone, con grande audacia stilistica, il purissimo decoupage classico degli incontri di boxe, che ricordano lo stile di Robert Wise e del suo The Set-Up: sequenze segmentate, dinamismo, dettagli dei piedi in movimento, primi piani di grande intensità emotiva, realismo trasfigurato nella vertigine. Sequenze che fanno di Keiko un’eroina dolente, una vittima della città che dopo l’incontro la avvolge, in campo lungo e quasi con compassione, nella sua solitudine romantica.

Nonostante il film sia saturo di un “male di vivere” intenso e giovanile, Miyake riesce, nel prefinale, a rovesciarne il pessimismo attraverso la lettura del diario di Keiko, con un procedimento di grande originalità. Il regista ripercorre gli eventi a ritroso in una serie di flashback che diventano un “dietro le quinte” di ciò che abbiamo visto sino a quel momento; la realtà perde la sua stanca univocità e appare nuova e inedita attraverso lo sguardo incantato e dolceamaro della ragazza.

Small, slow but steady conferma la forte vocazione femminile del cinema giapponese recente e aggiunge un altro personaggio dolce e resistente a una serie di figure in lotta col destino: da Ann dell’omonimo film di Yu Irie A girl named Ann (2024), a Kiko di 52 Hertz Whales (2024, Izuru Narushima) o Aoi di A far shore (2022, Masaaki Kudō). Protagoniste che affiorano da una realtà in disfacimento o dai margini dell’esistenza, di cui spesso sono gli scarti, e che si oppongono a una fine già scritta. Un cinema di donne e di bellezza emersa, di naufraghe che cercano ancora un’illusione, magari di breve durata, in cui ancorare il proprio desiderio di vita e riscatto.

© Riproduzione riservata

English Version

Boxer Keiko was born with a hearing impairment. Boxing is a true passion, and her club is like a family, but a series of negative events takes its toll: COVID-19 spreads, her coach falls ill, and the gym is about to close permanently. Loosely based on the autobiographical novel “Don’t Give Up” by Keiko Ogasawara.

One of Miyake’s finest films, balancing a multitude of sensations and inspirations, Small, Slow But Steady is the work of a filmmaker perfectly immersed in the cultural and artistic background of his country, yet also restless and eager to assert himself as a new and free presence. An atypical and personal “sports” film, based on a true story and transformed into a space for experimentation, Small, Slow But Steady focuses on reproducing the microcosm of deaf boxer Keiko (a marvelous Yukino Kishii), altering the conventional convergence of image and sound. Words are almost absent or reduced to a tool for minimal narrative connections; the noises, on the other hand, are amplified, particularly expressive, used as a rhythmic and abstract soundtrack.

Miyake’s attention to sound and its hyperrealist quality allows us to better understand Keiko, isolated from the codes of normal communication—sometimes with great frustration—but also a creator of “visual” music. This aspect is particularly evident during fights, whose choreographic value Miyake highlights, but also in everyday life, in the harmonious repetitiveness of gestures or the use of stylized movements.
Silhouetted against the night and illuminated by streetlights, like a single, persistent note, Keiko possesses the melancholy of a Jean-Louis Barrault: opaque and impenetrable, but also inescapably sad and lost. As in his previous films, Miyake proves himself an extraordinary urban photographer, capturing the silent alienation of people in crepuscular tableaux. Within these, he places Keiko, a human presence yearning for invisibility, ready to “disappear” into the world. The careful study of color accentuates this mimesis of the invisible.

In many ways, Small, Slow but Steady is the story of a disappearance: Miyake expresses the feeling of a “decay”, typical of the COVID era, when humanity seemed on the threshold of its own demise, and transfers it metonymically to Keiko’s experience, the run-down neighborhood gym, and the end of a world. With a profound love for Ozu’s cinema, Miyake offers us privileged access to the girl’s evolving soul through the use of emotional images (shots of empty spaces, objects, or landscapes); Just as frequent is the use of tender scenes in which Keiko and her elderly master indulge in playful moments of affection, with movements in unison and a physical proximity that also becomes a shared feeling.

These scenes are contrasted, with great stylistic audacity, with the pure, classic decoupage of boxing matches, reminiscent of the style of Robert Wise and his The Set-Up: segmented sequences, dynamism, details of feet, close-ups of great emotional intensity. These sequences make Keiko a suffering heroine, a victim of the city that, after the match, envelops her, in long shots and almost with compassion, in its romantic solitude.

Although the film is saturated with an intense sense of solitude, Miyake manages, in the pre-finale, to reverse its pessimism through the reading of Keiko’s diary, with a highly original approach. The director retraces events backward in a series of flashbacks that serve as a “behind the scenes” glimpse of what we’ve seen up to that point; reality loses its tired univocity and appears new and unseen through the girl’s enchanted, bittersweet words.

Small, slow but steady confirms the strong female vocation of recent Japanese cinema and adds another sweet and resilient character to a series of figures struggling with destiny: from Ann from Yu Irie’s eponymous film A Girl Named Ann (2024), to Kiko from 52 Hertz Whales (2024, Izuru Narushima), or Aoi from A Far Shore (2022, Masaaki Kudō). Protagonists who emerge from a crumbling reality or from the margins of existence, of which they are often the rejects, and who resist a predetermined end. A cinema of women and emerging beauty, of castaways still searching for an illusion, perhaps short-lived, in which to anchor their desire for life and redemption.

2 risposte a “SMALL, SLOW BUT STEADY (Keiko, me wo sumasete, 2022), Shō Miyake”

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