BLACK RAIN (Kuroi Ame, 1989) di Shōhei Imamura 

La mattina del 6 agosto 1945, Shigematsu sale su un treno da Hiroshima per andare a lavorare in fabbrica, ma poco dopo l’esercito americano sgancia la bomba atomica. La vita dell’uomo e della sua famiglia cambia per sempre. Sua nipote Yasuko, come molti altri, si ammala per l’esposizione alle radiazioni secondarie. Dal romanzo “Black Rain” di Ibuse Masuji del 1965.

Film del 1989, Black Rain è così accurato nella ricostruzione storica e nella cura filologica dell’immagine – dal particolare e denso bianco e nero, alla disposizione degli oggetti del profilmico, all’attenzione antropologica (volti, corpi) – da sembrare girato tra i ’40 e i ’50.
Imamura documenta l’esplosione della bomba atomica a Hiroshima e gli anni successivi attraverso lo sguardo di una famiglia di sopravvissuti: la giovane Yasuko, lo zio Shigematsu e sua moglie Shigeko. L’esperienza è sconvolgente, e il turbamento diventa ancor più intenso perché preceduto da scene di vita quotidiana, montate in successione con asciuttezza, senza alcuna nota di pathos: alcune donne sono intente in una cerimonia; lavoratori si accalcano in un treno; un cane attraversa veloce la strada. Tutto è quiete e silenzio, finché una stanza viene illuminata da un bianco irreale e accecante. È allora che l’esplosione diventa anche suono e le cose precipitano nell’orrore.

I corpi prendono fuoco, si liquefanno, si polverizzano. La pelle scivola via dalle ossa, i cadaveri sono irrigiditi come statue nere, gli arti contorti. Madri piangono bambini morti in braccio; i sopravvissuti vagano urlando. Imamura filma tutto con occhio documentario, senza la minima sbavatura emotiva: ma proprio per questo le immagini sono uno shock senza fine. Per la devastazione del bombardamento atomico il regista si basa sulla rappresentazione nel film d’animazione Barefoot Gen (1983, Mori Masaki), di cui Imamura riproduce fedelmente le sequenze. Furono inoltre utilizzati effetti speciali estremamente realistici per ricreare le scene dell’esplosione della bomba atomica, della nube a fungo e dei cadaveri carbonizzati che giacevano all’epicentro.
Bellissimo il volto di Yasuko, la giovane protagonista: pioggia nera cade sul suo volto facendo di lei una madonna sofferente. Ad accrescere la visione di molte scene spirituali e oniriche contribuisce la colonna sonora inquietante e dissonante di Tōru Takemitsu, fatta di archi vibranti e discese profondissime nelle emozioni umane.

Il film testimonia la vita immediatamente successiva: il tentativo di ritorno a una impossibile normalità, la stigmatizzazione subìta, il male che riemerge come tumore e follia. La stupenda regia di Imamura fa di questo film un intenso omaggio alla classicità, quella stessa classicità da lui combattuta in giovinezza: ci sono le inquadrature con camera bassa, il rigore della composizione degli interni, ma soprattutto i caratteri dei protagonisti a ricordarci il cinema di Ozu: Yasuko, abbigliata e pettinata come Setsuko Hara, non vuole sposarsi né allontanarsi dai suoi zii; Shigematsu ha un carattere stoico e quieto come tanti personaggi interpretati da Ryū Chishū. È come se, nonostante tutto, un sentimento per il cinema classico si facesse strada in Imamura: le spighe mosse dolcemente dal vento, i piani sequenza di Mizoguchi; ma anche i campi lunghissimi e la vita contadina di Naruse (Summer Clouds) e le sue passeggiate nel bosco; fino alla poesia di Kinoshita e alla sua nostalgia per un passato perduto.

Imamura orchestra l’epica quotidiana alternando scene d’orrore e momenti intimi, quieti, d’illusione: la narrazione si intesse di flashback a ricordarci che passato e presente coesistono, e quel “bagliore” maligno è materia quotidiana, presenza viva e letale nella mente e nel corpo dei protagonisti. Yasuko lentamente si spegne: il corpo si macchia di tumori, i capelli cadono. Non c’è enfasi, ma si esce dalla visione provati, con la sensazione di aver avuto accesso a una visione d’inferno in cui i semplici si piegano al martirio, e di aver attraversato un paesaggio alla William Blake in cui “l’anima della dolce gioia non si potrà mai insozzare”.

Esiste un finale alternativo di circa 19 minuti, girato a colori, in cui Yasuko sopravvive e compie un pellegrinaggio ai luoghi sacri 20 anni dopo il bombardamento atomico. Imamura, dopo molte riflessioni, decide di eliminarlo dalla versione definitiva. Si tratta di una scena di grande bellezza, in cui il regista mostra il ricongiungimento di Yasuko con i cari scomparsi in un’atmosfera di altissima spiritualità. La scelta di Imamura mantiene la coerenza stilistica e atmosferica del film, su cui pesa un pessimismo cupo e terribile; ma lasciamo qui il brano per chi volesse visionarlo e constatarne l’incanto estatico e misterioso.
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Una replica a “BLACK RAIN (Kuroi Ame, 1989) di Shōhei Imamura “

  1. Avatar THE LAND OF HOPE (Kibō no Kuni, 2012), Sion Sono – Nubi Fluttuanti

    […] dell’amore che vince la tragedia e le sue irrazionali conseguenze. Il film sembra memore di Black Rain (1989) di Imamura e del suo finale dai colori saturi e commoventi, in cui gli affetti consolano la […]

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